“Il leone ruggisce al deserto esasperante”
Wallace Stevens
Con questa frase che cito nell’incipit James Hillman, in un suo breve saggio del 1989 “And Huge is Ugly”, invita il lettore ad osservare e sentire il mondo: rendersi conto di quanto le emozioni non siano tanto qualcosa di “chiuso dentro la nostra testa”, quanto una reazione al contesto in cui siamo immersi.
Tutto il saggio, breve in verità (sei intensissime pagine), è un’esortazione a smetterla di dividere: un invito a non cadere nella trappola di vedere il Sé e il Mondo come entità staccate e a non rispondere automaticamente a ciò che ci circonda ma, piuttosto, a riflettere e psicologizzare, tenere a mente Psiche e tralasciare L’Io e l’enfasi sull’individualità. Dice Hillman: “Da lungo tempo mi trovo in posizione critica nei confronti del disastroso polarizzarsi della terapia sul sé: quella malattia che è il narcisismo psicoanalitico, il narcisismo insito, cioè, nella nostra ossessione della soggettività. Il fascino per il sé, tuttavia, non potrà scomparire finché non riconosceremo che ciò di cui si occupa la psicoterapia non è il sé ma la psiche”. E siccome “Fin da Platone ‘psiche’ è stata riferita a un’anima avvolgente, esterna e al di là della nostra testa e della nostra pelle umani, al di là dei confini di ‘me’, al di là delle mie relazioni intra e interpersonali, perfino al di là del mondo in quanto mio ambiente ecologico e mio campo proiettivo”, mettere l’attenzione su psiche significa, necessariamente, smettere di dividere.
Significa smettere di credere che isolandoci dal mondo e combattendolo o reprimendolo si possa allentare la sua presa, si possa sfuggire al dolore che ci causa l’immersione nel deserto esasperante da cui, a volte, ci sentiamo circondati.
Se psiche è intorno a me devo trovare un modo per capirla, per indagarla, per agire fuori da me e addentrarmi nel giardino o nel bosco: non è reprimendo o negando l’esistenza di “una realtà là fuori” che riuscirò a guarire da miei sintomi. E devo in qualche modo, mentre procedo in questo cammino, curare la mia scissione: smetterla di essere uno studioso isolato dalla materia che affronta, accettare di sentire, dice Hillman e rendermi conto di cosa sto sentendo.
Cos’è l’ansia che mi prende quando mi muovo verso…? E’ paura per qualcosa? E’ davvero dentro la mia testa, il prodotto di una serie di eventi chimici nel cervello? O è “fuori”? Mi fa paura l’enorme modo là fuori? Sono davvero così piccolo?
Diceva Jung che “Gli Dei sono diventati dei sintomi”: la negazione di ciò che, da un punto di vista psichico, anima il mondo, la cecità che ci convince della distanza fra noi e il resto del creato, l’ostinata separazione fra mente e natura e fra natura e cultura, questo continuo pensare alle cose come oggetti inanimati su cui esercitare il controllo e l’arbitrio, ha tolto di mezzo il sacro, ha creato un deserto, qualcosa di estraneo e senza anima ma, proprio per questo, inospitale e vuoto.
E i piccoli “io” portatori di sintomi vanno nelle stanze dei terapeuti alla ricerca di sollievo: cercano farmaci, psicoterapie, meditazioni, pillole di saggezza…che compensino con una nuova visione o con una riacquistata stima la terribile percezione del mondo là fuori.
Ma chi fa il mio lavoro sa bene (o dovrebbe sapere) che non è isolandosi nella stanza di analisi che i sintomi scompaiono: occorre, invece, mettere l’accento sull’individuo quel tanto che basta per rimetterlo in comunicazione con il mondo. Le persone guariscono quando nella loro vita ricompaiono gli dei. Naturalmente questo non significa, anche se certe “scuole” sembrano sostenerlo, che la terapia debba diventare la nuova religione: il ritorno agli dei non è la regressione ad un culto pagano né la convinzione che “davvero” gli dei siano letteralmente dentro alle cose; è, piuttosto, un affinarsi della sensibilità, un rientrare nel mondo con nuovi occhi e con sensi resi più attenti, meno ossessivamente girati verso l’interno e verso il sé.
“Il compito psicologico è di restituire colore e gusto, suono e struttura alle cose del mondo, senza più fingere che abbiano luogo soltanto nel sensorio soggettivo.” Man mano che questo compito viene portato avanti, via via che il paziente diventa consapevole degli ottundimenti che lo isolano e lo separano dalla vita… il mondo riprende vita e le cose si rianimano.
Ci sono dei gradini e dei passaggi obbligati in questo lavoro che Hillman ha definito “fare anima”. E’ un cammino a volte tortuoso che spesso non si svolge nella stanza di analisi: ci sono cambiamenti che avvengono nei sogni, nelle relazioni o negli incontri che una persona, che apre nuove porte o ne riapre di “inavvertitamente sigillate”, fa.
Lo psicoterapeuta spesso non è nient’altro che un pretesto, uno spunto, e un incentivo al cambiamento e il cambiamento, il cominciare ad agire in un modo diverso porta, poi, a nuove visioni e a nuovi scenari.
Come disse Milton Erickson: “Il cambiamento porta alle intuizioni molto più di quanto le intuizioni portino al cambiamento”. E smettere di dividere, accettare l’unità di mente e natura e di psiche e mondo è il primo passo, il fondamentale cambiamento psicologico da cui può nascere una visione diversa di sé e della vita.
Di questi passi parlerò nei prossimi post. Vi lascio per ora con questa introduzione e con il link al libro di Hillman che contiene la traduzione in italiano del saggio a cui mi sono riferito.