“Una vogliuzza per il giorno
una vogliuzza per la notte
fatta salva la salute”
F.Nietzsche
Parlando, nell’ultimo post, di omeostasi ho voluto mettere l’accento sul substrato biologico su cui tutti noi, animali umani, fondiamo anche i comportamenti più sofisticati: quelli che ci fanno guardare con superiorità gli altri esseri animati che popolano la terra.
Ci rendiamo conto di sapere e siamo consapevoli del possesso di una mente. Siamo disposti a concederne un abbozzo anche alle scimmie antropomorfe, ai delfini, ai cani, ma sappiamo che solo noi esseri umani abbiamo la capacità di astrarre, di gestire simboli e di lavorare con le nostre astrazioni fino a farle diventare opere della coscienza: costruzioni che stanno in piedi da sole e che rimandano al mondo, rappresentandolo e permettendoci di intervenire su di esse per prevederlo, progettarlo, modificarlo.
E’ grazie alla mente che possiamo intervenire sul mondo non solo rispondendo ad esso ma immaginandolo e modellandolo, piegandolo, almeno in parte, alla nostra volontà.
“Moltissime specie tuttora esistenti se la cavano magnificamente nella loro nicchia ecologica, operando esclusivamente con una regolazione automatica dei processi vitali. Per una creatura sconfinante, incline al vagabondaggio, l’uscita dalla nicchia ecologica originaria apre ogni sorta di possibilità. D’altra parte lo sconfinamento ha un costo potenziale.” (Damasio)
Ogni umano, ogni bambino cresciuto e allevato da uomini e non da animali, ha imparato a sconfinare, ad uscire da sé e a sfidare l’Aperto andando oltre alla gamma di risposte prestabilite e inventandone di sempre nuove.
Abbiamo addirittura immaginato una filosofia che fa dell’ex-istere, l’essere “fuori di noi” e sempre aperti al mondo, il tratto fondamentale della nostra specie (Cfr. Heidegger).
Il substrato biologico sembra molto distante e ce ne ricordiamo solo quando “qualcosa non va”, quando il corpo ci richiama all’ordine e ci ricorda la nostra vulnerabilità o quando la mente prevede uno scarto: un allontanamento da quella che consideriamola la scena ideale, la giusta dose di felicità, ciò che ci farebbe contenti.
Gestire lo scarto, continuare ad assottigliare la distanza fra la situazione attuale e la scena ideale è sconfinare: è guardare oltre, desiderare, volere qualcosa che ci faccia sentire in avvicinamento a ciò che definiamo felicità, ciò che intendiamo come felicità in un certo momento e che saremo pronti, da bravi sconfinatori, a ridefinire come “non più soddisfacente” non appena l’avremo raggiunto.
Quelli che ho chiamato incentivi sono piccoli rinforzi (come i biscottini che l’addestratore dà al cane), assaggini di soddisfazione, pezzetti di emozione che diventano promesse di ulteriore piacere. Su essi si costruisce un’intera parte di personalità e di psiche; servono per tenere viva la ricerca e per “ragionare” su costi e benefici spingendoci ad elaborare strategie che ci permettono di continuare ad esplorare e cacciare e raccogliere.
E’ dosando con estrema raffinatezza questi incentivi che la mente e il cervello ci consentono di vivere in base a quello che Freud definì principio di realtà: quello stile di pensiero che mi permette di rifiutare un piacere immediato a favore di qualcosa di più grande. Posso, insomma, pregustare un ottimo raccolto l’anno prossimo grazie ai semi che, nonostante la fame, non ho mangiato quest’anno; posso intravedere il risultato della fatica che sto facendo e immaginare quanto sarà migliore la mia vita quando avrò raggiunto, grazie a questa fatica….
E pregustare il raccolto è già “essere un po’ felici” così come lo è il sentire che lo sforzo ci sta avvicinando all’obiettivo.
Ma questo mi ricorda una storia in cui si racconta di un uomo che batteva le mani ogni dieci secondi. Interrogato sul perché spendesse la giornata a compiere un tale gesto rispose che lo faceva “per scacciare gli elefanti”. E quando cercarono di fargli notare che in giro non ce ne erano proprio di elefanti, lui rispose: “Appunto!”.
E’ una storiella che racconto spesso e che, nel mio lavoro, serve per esemplificare il meccanismo che caratterizza la nevrosi: quello stato patologico della mente in cui una soluzione sopravvive alla propria utilità, un vecchio comportamento che ha funzionato una volta e che ha “raccolto i suoi begli incentivi” continua a ripetersi nel tentativo di riottenere lo stesso risultato/risolvere lo stesso problema.
Sentite quest’altra: ” L’Accademia americana per la medicina d’emergenza lo conferma: ogni anno fra i dodici e i ventiquattro maschi adulti statunitensi vengono ricoverati al pronto soccorso dopo essersi castrati. Con utensili da cucina, a volte con tenaglie. In risposta all’ovvia domanda, spesso i sopravvissuti spiegano che i loro impulsi sessuali erano diventati fonte di conflitto e ansia intollerabili. Il desiderio di completo appagamento unito alla concreta impossibilità di ottenerlo quando e come volevano, aveva prodotto in essi una tensione insostenibile.” (D.F. Wallace)
Quando la nevrosi diventa intollerabile; quando il vecchio metodo per allontanare l’angoscia e per procurarsi un po’ di effimera felicità smette di funzionare; quando gli elefanti premono sui confini anche se continuo a battere le mani ci si trova ad un bivio.
I pazienti di cui parla Wallace sono persone che, al bivio, prendono la strada che sconfina nella psicosi: non potendo più controllare un’escalation decidono di porvi fine con un gesto sconsiderato, qualcosa che elimina il problema amputando una parte di mente e di corpo.
Ma c’è un altro modo di sconfinare.
Un salto più che un percorso: una strada che porti fuori dalla nevrosi ma anche fuori dalla normalità. Uno sconfinamento che implica una presa di responsabilità: quella Cura che ci permette di riflettere sul desiderio e di comprenderne le trappole.
Il desiderio è irriducibile. Sempre andremo avanti desiderando, spingendo per un qualcosa, piccolo o grande, che sta fuori di noi, più o meno alla nostra portata.
Il tentativo di togliere completamente il desiderio è un gesto violento e stupido, qualcosa di molto simile alla autocastrazione di quei poveri disperati che, scambiando la parte per il tutto, pensano di poter dare un taglio netto e risolvere con un’azione invece che con un cambio di pensiero.
Ma aveva ragione Wallace: ” Imparare a pensare di fatto significa imparare ad esercitare un certo controllo su come e cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che ci permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare quel tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati.”
Prescindere dal nostro solito essere noi stessi, dall’io che “fa così perché è così” è il primo e fondamentale passo per uscire dalla nevrosi e per usare la forza del desiderio invece di esserne semplicemente trascinati.
E’ uno sconfinamento nel pensiero e in profondità, un crescere verso il basso, acquisendo spessore.