“Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico,
il sano e il folle, il comico e il serio…
perfino l’amore e l’odio, sono tutti temi
che oggi la scienza evita”
G.Bateson
Nel suo saggio “Tesi di filosofia della storia” Walter Benjamin per parlare del progresso e del modo in cui un certo modo di mettersi, una certa postura e una particolare propensione a protendersi o ritrarsi determinano certe visioni del mondo, usa un’immagine divenuta celeberrima : “C’è un quadro di Klee che s’intitola ‘Angelus Novus’. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”
Molti saggi sono stati scritti come commento a questo passaggio del filosofo e lo stesso Benjamin nel resto del suo scritto spiega esaurientemente ciò che per lui l’immagine rappresenta.
A me e per gli scopi di questo post che si collega agli altri che ho scritto recentemente sul tema della comunicazione, interessa più l’uso che lo scrittore ha fatto dell’immagine, il modo in cui, attribuendo significati ai segni e alle espressioni e ai gesti, egli ha letto l’immagine e descritto l’icona.
Cosa ha fatto Benjamin? Ha usato un’immagine non dipinta da lui e l’ha “interpretata”, ha visto dentro di essa una quantità di cose che altri probabilmente non avrebbero visto, l’ha usata per spiegare qualcosa che potremmo vedere distantissimo dall’immagine stessa, l’ha adattata e adoperata come un amplificatore o un a lente, qualcosa attraverso cui leggere qualcos’altro o con cui aggiungere senso a qualcosa che si vuole esprimere.
Lui l’ha fatto molto bene, certi scrittori sono bravi a farlo, ma anche noi lo facciamo spesso.
In genere compiamo questa azione ogni volta in cui abbiamo bisogno di collegare fra di loro i due moduli della comunicazione: quello analogico (delle immagini, dei gesti e della comunicazione non verbale) e quello digitale/numerico (delle parole, del discorso e del linguaggio verbale).
Benjamin ha compiuto un rito: ha messo in fila, allineandoli esteticamente una serie di gesti e di eventi che ha estrapolato da un’immagine; e l’ha fatto per comunicare significato usando sia l’immagine che la parola, sia l’analogico che il digitale.
Sentite questa descrizione di Watzlawick che, citando a sua volta delle osservazioni di Bateson sul comportamento dei delfini, racconta il modo in cui due specie diverse riescono a “spiegarsi”: “Abbiamo avuto occasione di osservare un modello di comunicazione, usato per stabilire relazioni di fiducia tra esseri umani e delfini, che ci è sembrato di grande interesse. Anche se è possibile che si trattasse di un rituale che solo quei due animali praticavano in privato resta sempre un esempio eccellente di comunicazione analogica del ‘non’. E’ evidente che questi animali avevano capito che la mano è una delle parti più importanti e vulnerabili del corpo umano. Ed essi cercavano di stabilire un contatto con un estraneo prendendogli in bocca una mano e stringendola delicatamente tra le mascelle, provviste di denti aguzzi e tali comunque da mozzare nettamente la mano di un uomo con un solo morso. Se l’uomo si sottometteva a questo rituale, sembrava che il delfino considerasse il gesto come un messaggio di completa fiducia. Poneva infatti sotto la mano, la gamba o il piede dell’uomo la parte del suo corpo che maggiormente è vulnerabile, cioè quella parte del ventre che grossomodo corrisponde alla nostra gola. Era il suo modo di segnalare di avere fiducia delle intenzioni amichevoli dell’uomo.”
La parola rito contiene in sé il suffisso “ri” che, in tantissimi termini, sta a significare lo scorrere, il fluire, come in rivo, river, ecc.
Ed in questa danza, in questo attento e accurato fluire si comunica per immagini qualcosa che rassicura il rapporto e traduce in gesti quelle che Bateson definì invocazioni di relazione, proposte che riguardano le regole future della relazione: “non ti distruggerò… non voglio farti male… possiamo, se stiamo a queste regole e a questi modi, considerarci amici/non nemici…”.
I delfini e gli umani e gli umani fra di loro (non sempre) invocano la relazione: usano delle “coreografie dei gesti” che diventano simboli. Non c’è molta differenza tra “prendere dolcemente in bocca la mano e, poi, offrire la gola” e “stringersi la mano in segno di pace o di amicizia”.
E non è così distante da queste elaborate catene di botta e risposta ciò che il filosofo riesce a scorgere in un’immagine che usa per spiegare un processo e per esprimere agli altri la sua idea di qualcosa che sfugge e che non è così facile da spiegare e da rendere chiaro.
Si costruiscono simboli per unire e questo la parola simbolo significa (dal greco symballein: mettere insieme). “L’esempio dei delfini ci suggerisce che il rituale può fungere da intermediario tra la comunicazione analogica e quella numerica, in quanto simula il materiale del linguaggio ma in un modo stilizzato e ripetitivo che è sospeso tra l’analogia e il simbolo.” (Watzlawick).
Ripetiamo, insomma, gesti che possano essere ripetuti che diventano dei simboli: delle condensazioni di linguaggio che evocano e invocano relazioni, possibilità di unione e di futura comunicazione sicura.
Alcune di queste catene di gesti finiscono, condensate, dentro a dei quadri o a delle opere d’arte e, a volte, vengono definite il bello: qualcosa che viene guardato o ascoltato con interesse e che favorisce la relazione.
Dice ancora Watzlawick: “In poesia, una forma di relazione sostanzialmente simile a quella di cui stiamo parlando, fra il rappresentante di una specie che potrebbe distruggere e, invece, stabilisce un contatto (nella fattispecie il rapporto tra l’uomo e ciò che lo trascende), l’ha espressa Rilke nei versi iniziali della prima delle Elegie Duinensi: per il poeta il bello è la negazione di una distruzione ad esso inerente e sempre possibile:
Chi mai, s’io grido, m’udrà dalle schiere celesti?
E d’improvviso un angelo contro il suo cuore m’afferri,-
io svanirei di quel soffio più forte. Ché il bello
è solo l’inizio del tremendo, che noi sopportiamo
ancora ammirati perché sicuro disdegna
di sgretolarci.”
(corsivi miei)
Buona sera , non ricordo il nome del DOC in cui la persona è molto prolissa nel parlare, scendendo eccessivamente nei particolari, ripetendo gli stessi concetti e ricominciando daccapo. La ringrazio
Non conosco il nome specifico. Ci sono colleghi che ossessivamente:-) danno il nome ad ogni variante di una fobia o di un disturbo psichico ma quel che conta è il disturbo: chi cerca in modo ossessivo la parola corretta sta “applicando” l’ansia ossessiva a quell’attività specializzandosi in quel rituale. Cambia il comportamento esterno ma resta uguale la ricerca incessante e mai soddisfatta di sollievo.