“La mente si muove sul silenzio
come sul fiume un insetto dalle lunghe zampe”
W.B.Yeats
Nel suo romanzo “Tutto il ferro della Tour Eiffel ” Michele Mari, parlando del filosofo Walter Benjamin, che è uno dei protagonisti della storia che si dipana nella Parigi della prima metà del secolo scorso, usa, come sfondo per delineare un tratto del carattere del personaggio, un’ immagine dell’angelologia ebraica:
“Secondo l’angelologia talmudica e kabbalistica, Dio gode di un’ininterrotta creazione di angeli che si dissolvono davanti a Lui nel momento stesso in cui Egli li nomina, cioè li crea. Questo potere è dato anche all’uomo, ma una volta sola e a una condizione: quando egli pronunci ad alta voce il nome segreto impostogli alla nascita dai genitori e rivelatogli all’ingresso nell’età puberale, nome che corrisponde alla sua identità più profonda e al suo angelo protettore: allora l’angelo-nome esce da lui, e perdendo la propria forma si insedia nelle cose che quell’uomo ha amato e tenuto a lungo con sé, rendendole, ai solo suoi occhi, trasparenti. In questo modo, quando l’uomo muore, la sua parte migliore non si disperde, perché trasfusa e protetta nelle cose. Senonché, alla nascita del piccolo Benjamin, i suoi genitori non pensarono affatto a scegliere per lui un nome segreto, un nome che ineffato lo proteggesse, ed effato lo trasfondesse nelle cose: dimenticanza che per tutta la vita gli avrebbe dato quel senso di insicurezza così radicato e tipico in lui da dargli, sempre, l’aria di un animale braccato.”
Capita a volte, quando siamo impegnati nella comunicazione con un altro essere umano, di sentirci proprio nello stesso modo: come se non riuscissimo a trasfondere nell’altro ciò che vorremmo trasmettere, come se non passasse, all’interno del flusso di informazioni, la cosa che vorremmo veramente imprimere.
Ogni volta che siamo impegnati in un dialogo con un’altra persona la nostra memoria è all’opera per registrare parte di ciò che viene detto, per trattenere alcune informazioni importanti, per far mente locale su ciò che “vogliamo assolutamente dire”, per prendere nota di cose che accadono sul piano non verbale (piccoli cenni che ci rassicurano che l’altro ha capito, tentennamenti che ci avvisano dei suoi disaccordi, abbozzi di sorrisi che ci confermano l’efficacia di ciò che stiamo dicendo…), per non perdere il filo del discorso, ecc.
Senza memoria la comunicazione non sarebbe possibile: non riusciremmo ad esprimere niente di ciò che ci sembra importante trasferire all’altro, non avremmo traccia di quanto viene detto e, per stare con la metafora, non imprimeremmo la nostra impronta nell’oggetto in cui vorremmo metterla né saremmo cambiati dal suo “tocco” su di noi!
Grazie alla memoria possiamo portare con noi parti dell’altro e contare sulla sua capacità di ritenere quello che volevamo trasferire. Ciò che ricordiamo determina una buona parte della nostra valutazione della qualità della comunicazione che è intercorsa fra noi e la persona con cui abbiamo parlato. E molto spesso questi ricordi, la registrazione di queste impressioni passate e i giudizi su di esse che, più o meno consapevolmente, portiamo con noi, influenzano la qualità dei futuri scambi comunicativi.
E’ per questo motivo che Bion consiglia ai terapeuti di affrontare ogni seduta con i propri pazienti mettendosi in uno stato “senza memoria e senza desiderio“.
Lo so… sembra un paradosso: senza memoria non saremmo in grado di comunicare e, tuttavia, se ricordiamo troppo, se teniamo presente ciò che la persona aveva detto la volta prima, se restiamo attaccati all’idea che vogliamo a tutti i costi sostenere… con troppa memoria la comunicazione non avviene.
Bisogna essere vuoti e silenziosi: occorre saper contenere ciò che l’altro dice e non correre in avanti a quello che vorremmo dire noi e servono attenzione e “vuotezza” anche quando è il nostro turno: il momento in cui da noi fluiscono le parole e i gesti che dovrebbero far passare, trasportare, quella parte di anima che vogliamo infondere al discorso.
Non parlo naturalmente di “comunicazioni di servizio” né di quell’insieme di chiacchiere e di convenevoli con cui a volte si cerca semplicemente di riempire il vuoto.
Mi riferisco a quei momenti di comunicazione in cui l’angelo-nome dovrebbe essere all’opera per rendere il messaggio davvero significativo.
Parlo dei momenti in cui il silenzio permette alla mente di accogliere l’altro e, facendolo, dà all’altro la possibilità di essere a sua volta ricettivo. Momenti in cui la comunicazione diventa una danza e un alternarsi di vuoto e di pieno, di vuotando-riempiendo che rende vivo e creativo l’atto stesso del comunicare.
Una volta un paziente, anche lui da tempo terapeuta, chiese a Bion di ripetergli un’interpretazione particolarmente significativa che aveva in parte dimenticato. Bion rispose :” Non posso ripeterla. Il tempo è passato. Dovremo riafferrarla a valle nella sua trasformazione.” (J.S.Grotstein).
Sapeva, Bion, che l’angelo scompare per lasciare subito posto ad un altro : la comunicazione non si impone e la memoria è un ottimo strumento solo se è accompagnata dalla capacità di dimenticare.
Con troppa memoria saremmo così pieni da non avere più spazio per l’altro, con troppo poca… avremmo ben poco da dire. L’interpretazione, l’aggiunta di significato che rende più chiaro un pensiero, più nitida un’emozione, più fluido uno stato d’animo, torna un po’ cambiata, trasformata ed evoluta se si rinuncia a trattenerla e se si lavora, invece, sulla qualità della comunicazione e del rapporto, sul tenere il filo che lega nel qui e ora i soggetti del dialogo.
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Grazie per i bellissimi articoli che seguo sul suo blog, leggo con ammirazione e pubblico sul mio blog per la diffusione; rappresentano un contributo alla conoscenza di se stessi e un aiuto a chiarire gli apetti bui dei nostri stati d’animo.