Storytelling: fare come se

“ESTRAGONE: Troviamo sempre qualcosa,
eh, Didi, che ci dà l’impressione di esistere?
VLADIMIRO (con impazienza): sì, sì,
siamo dei maghi, ma pensiamo a quello che
dobbiamo fare, prima di scordarcene”
S.Beckett   “Aspettando Godot”

Discutevo alcuni giorni fa con una collega sull’opportunità di lasciare che un paziente si consideri speciale.

E’ un antico dibattito che va avanti da anni nel mondo della Psicologia e che vede ad un estremo i rappresentanti di una Psicoanalisi ortodossa che insistono sulla necessità di smontare le idealizzazioni del paziente per portarlo alla consapevolezza dei propri limiti e del suo ruolo nella Realtà e, all’altro estremo, quelle tendenze semplicistiche e un po’ New Age che mettono l’accento sull’autostima, sull’importanza della motivazione e sull’idea che c’è un vero sé che se ne sta nascosto come un gioiello in un forziere.

Molti pazienti vengono in seduta con l’aspettativa recondita di trovare questo “tesoro nascosto”, altri sono convinti di averlo già scoperto ma di non essere in grado di mostrarlo al mondo, altri, seguendo inconsciamente l’antico adagio latino esse est percipi, “essere è essere visti”, lamentano il fatto che l’amato, l’unica persona da cui vorrebbero veramente essere considerati, guarda da un’altra parte, ecc.

Ci sono volte in cui il problema con l’autostima è che non c’è e altre volte in cui il problema è che c’è ma è priva di ironia.
Nella mia carriera ho incontrato un paio di gesù cristo, un reincarnazione di Leonardo e alcuni altri personaggi famosi che, pur pervasi dalla convinzione di essere persone eccezionali, portavano avanti, in questa vita, un’esistenza “normale” e, secondo loro, assolutamente indegna.

In casi estremi come questi la prima risposta dello Psicoterapeuta, la più istintiva, è quella di contrastare il delirio.
Viene voglia di dire: “Guarda, tu sei più o meno come tutti! Lascia perdere queste manie di grandezza che, per di più, ti stanno davvero rovinando la vita, e concentriamoci sulle tue relazioni, sulla tua capacità di comunicare, di prenderti cura, di lavorare“.
Sembra una risposta sensata e, in genere, la si prova, per accorgersi immediatamente che non funziona.

E non è che non funziona solo in casi francamente deliranti come quelli che ho citato. Non funziona mai!
Nessuno, nemmeno quelli che se lo mettono addosso come un’etichetta vuole sentirsi dire “Tu… più o meno come tutti gli altri!”.
Solo nell’adolescenza c’è un periodo in cui diventa essenziale conformarsi e assomigliare al gruppo a cui si decide di appartenere, ma, in quel caso, l’essere come tutti gli altri è funzionale proprio al differenziarsi da altri gruppi, è sempre un contro: un modo di essere particolari in quanto membri di un’unica identità che è diversa dal resto ( il nostro gruppo speciale, la nostra compagnia, il “movimento”, ecc).

Basta mettersi ad osservare un gruppo di mammiferi che giocano (cuccioli di homo sapiens, scimmie, lupi…) per accorgersi di come, nel gioco, ciò che conta è giocare con gli altri ma essere almeno un po’ diverso dagli altri: cercherò di arrivare per primo, di prevalere, di vender cara la pelle, di usare un nuovo trucco che stupisca tutti.
Se farò il gregario sarò più zelante degli altri maschi beta, e, se proprio devo essere l’ultimo, cercherò una qualche strategia che mi faccia sembrare simpatico o “interessante perché ultimo”.

Nel gioco si fa come se, ci si racconta e, raccontandosi, si cerca di mettere in luce qualcosa che ci tiri fuori dal mucchio, che ci stagli rispetto allo sfondo, che ci renda visibili.
Ho visto persone fare le cose più strane pur di non essere più o meno come tutti e ne ho sentite molte che, a posteriori, giudicavano molto stupidi certi gesti che, al momento, sembravano un’ ottima idea: un modo per non fare da tappezzeria.

Nel fare come se si indossano abiti speciali, ci si può caricare dell’energia di un personaggio e illuminare di una luce particolare.
Questi uomini sono così come sembrano?

Danza Haka

E questo animale?

Gorilla

La risposta è Sì e No contemporaneamente!
Può essere molto utile, prima di una sfida, incarnare uno spirito guerriero che tenga alta l’adrenalina, scateni gli ormoni e renda più tonici i nostri muscoli.
Si può forzare per essere speciali: si possono cercare in noi risorse nascoste che, se non stimolate, rimarranno silenziose e inutili.
Un cucciolo che non gioca e che non cerca di essere qualcosa di diverso da sé è destinato a non crescere psicologicamente.
Nel regno animale, da un punto di vista evolutivo, sarà probabilmente un adulto che, non combattendo con gli altri, non troverà un partner e non porterà avanti la propria linea genetica.

Naturalmente, può essere molto pericoloso indossare sempre un abito particolare: voler sempre emergere o essere speciali; è l’autostima senza ironia di cui parlavo più sopra.

Ma la capacità di fare come se è anche in questi casi un buon antidoto: se so che sto giocando posso prendermi molto sul serio e, allo stesso tempo, guardarmi con disincanto:  “Sono più o meno come tutti: mortale, vulnerabile, non così irresistibile. Ma sto giocando e cerco di tirare fuori il meglio. So che sto raccontandomela ma è una buona storia!”

La discussione fra me e la collega non è finita. Siamo per ora arrivati alla conclusione che è inutile cercare di convincere una persona della propria “non specialità”, del proprio essere, tutto sommato, normale.
Più euristico lavorare sulla consapevolezza che vivere è raccontarsi e che fare come se non è “far finta” ma, piuttosto, coltivare la capacità di essere versatili, in grado di indossare ben più di un abito senza identificarsi troppo con quello che si sta portando.

3 thoughts on “Storytelling: fare come se

  1. Riccardo

    Il termine normale è fuorviante. Nessuno è normale. Ciascuno è uno scrigno da cui può uscire molto se c’è chi può raccogliere, quando la stima del sè non è sotto i piedi. Quello che esce da un sè ne è solo un frammento. L’insieme dei frammenti giustifica un amore.

    Reply
  2. Riccardo

    LA POLITICA DELL’ESPERIENZA (copyright by Feltrinelli) PARTE PRIMA
    Ronald D. Laing (1967)

    Nasciamo in un mondo dove l’alienazione ci attende; potenzialmente siamo degli uomini, ma versiamo in uno stato di alienazione e questo non rientra in un sistema naturale.

    Il comportamento altrui è un’esperienza mia, il mio comportamento è un’esperienza altrui.
    Possiamo vedere il comportamento degli altri, ma non la loro esperienza. La mia esperienza di Voi non è “dentro” di me, ma essa è semplicemente Voi come io Vi esperimento, ed io non posso sperimentarvi come interni a me. Tutti gli uomini sono invisibili gli uni agli altri. L’esperienza è l’invisibilità dell’uomo all’uomo.

    Sono in grado oggi gli esseri umani di essere persone? Può un uomo essere veramente se stesso con un altro uomo o con una donna?
    Buona parte dei comportamenti umani può essere considerata alla stregua di tentativi unilaterali o bilaterali di eliminare l’esperienza. Una persona può trattarne un’altra come se non fosse una persona. Non c’è attinenza tra l’esperienza di una persona e quella di un’altra.

    La nostra capacità di pensare, se si eccettua quella in servizio di quanto, pericolosamente ingannandoci, supponiamo nostro interesse, e quella in conformità al senso comune, è pietosamente limitata: persino la nostra capacità di vedere, toccare, percepire sapori ed odori è talmente annebbiata dai veli della mistificazione che per tutti è necessaria una intensa disciplina volta a disimparare, prima che possiamo incominciare ad avere di nuovo esperienza del mondo, con innocenza, verità e amore.
    Molti di noi non sanno, o anche non vogliono credere, che ogni notte entriamo in zone del reale nelle quali scordiamo la vita di veglia con la stessa regolarità con la quale svegliandoci dimentichiamo i nostri sogni.

    Ciò che viene chiamato “normale” è un prodotto di repressione, negazione,scissione,proiezione, introiezione, e di altre forme di azioni distruttive operata contro l’esperienza. Esso è radicalmente estraneo alla struttura dell’essere.
    La persona “normalmente” alienata, per il solo fatto di agire più o meno come tutti gli altri è presa per sana.
    La condizione di alienazione, quella di essere un dormiente, inconsapevole, fuori di sè, è la condizione dell’uomo normale. La società fa gran conto del suo uomo normale: educa i fanciulli a smarrire se stessi e a divenire assurdi, ed ad essere così normali.
    Gli uomini normali hanno assassinato 100 milioni circa dei loro simili uomini normali negli ultimi 50 anni.
    Il nostro comportamento è una funzione della nostra esperienza: agiamo in accordo con il nostro modo di vedere le cose. Se la nostra esperienza è distrutta, il nostro comportamento sarà distruttivo. Se la nostra esperienza è distrutta , abbiamo smarrito noi stessi.

    Gli uomini possono distruggere l’umanità di altri uomini e lo fanno e la ragione è che siamo interdipendenti. Ognuno di noi , per gli altri, è l’altro.

    Ciò che pensiamo è meno di ciò che sappiamo, ciò che sappiamo è meno di ciò che amiamo, e ciò che amiamo è di gran lunga meno di ciò che esiste; noi siamo quindi esattamente altrettanto meno di ciò che siamo. Tuttavia, se non altro, ogniqualvolta nasce un nuovo bambino, vi è la possibilità di sfuggire alla condanna; ogni bimbo è un essere nuovo, un profeta potenziale, un nuovo Principe dello spirito, una nuova favilla di luce caduta nelle tenebre esteriori. Chi siamo noi per poter decidere che per lui non vi sono speranze ?

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  3. Riccardo

    LA POLITICA DELL’ESPERIENZA (copyright by Feltrinelli) PARTE TERZA
    Ronald D. Laing (1967)

    L’esperienza della negazione

    Vi sono molte varietà di esperienze di mancanza o di assenza, e molte sottili distinzioni tra l’esperienza della negazione e la negazione dell’esperienza. Ogni esperienza è insieme attiva e passiva, unisce il dato di fatto e ciò che su di esso viene costruito, e la costruzione che viene edificata sopra il dato può essere positiva o negativa: può trattarsi di qualcosa che si desidera, o si teme, o che ci si aspetta, oppure no. L’elemento della negazione è in ogni rapporto umano e in ogni esperienza di questo rapporto(NdR). La distinzione tra l’assenza del rapporto e l’esperienza di ogni rapporto come assenza è quella tra la solitudine e l’isolamento perpetuo, tra una speranza o una sfiducia provvisorie e una disperazione permanente. Il ruolo che ci accorgiamo di giocare nel produrre questo stato di cose è anche quello che determina la nostra sensazione di potere o dovere fare qualcosa in proposito.
    Il nulla, in quanto esperienza, insorge per la mancanza di qualcuno o di qualcosa: degli amici, di rapporti umani, di piacere, di senso da dare alla vita, di idee, di gioia, di denaro; o, per quanto riguarda il corpo, dal vuoto: mancanza del seno, del pene,di qualsiasi attributo più o meno nobile.
    Abbiamo paura di avvicinarci all’incommensurabile e insondabile mancanza di fondamento del tutto. “Non c’è nulla di cui avere paura” : l’estrema rassicurazione, e l’estremo terrore (NdR).
    Noi esperimentamo gli oggetti della nostra esperienza come là fuori nel mondo; l’origine della nostra esperienza sembra situarsi al di fuori di noi stessi. Noi siamo congiunti gli uni agli altri fisicamente; le persone, in quanto esseri dotati di un corpo, si rapportano reciprocamente nello spazio; e inoltre siamo divisi ed uniti dai nostri diversi punti di vista, dalla diversità di educazione, di ambiente, di organizzazione sociale, dalla adesione a gruppi, associazioni, ideologie, da interessi economici-sociali e dai diversi temperamenti.Queste “cose” di natura sociale che ci uniscono, sono al contempo altrettante cose ,altrettanti finzioni sociali che ci separano. Ma se potessimo lasciare perdere tutte le esigenze e le contingenze, e rilevarci reciprocamente la nostra nuda presenza ? Se togliessimo di mezzo ogni cosa, tutte le vesti, le maschere, le stampelle, le truccature, e i progetti in comune, e quei giochi che ci forniscono il pretesto per delle circostanze camuffate da incontri a livello umano, se potessimo incontrarci veramente, se si verificasse un simile evento, una felice coincidenza tra esseri umani, cosa ci separerebbe allora ?
    Se disegno una forma su di un pezzo di carta (NdR) sono sorpreso dal fatto che appaia qualcosa che non esisteva prima, e che queste linee non ci fossero sulla carta prima che io ve le mettessi ? A questo punto ci stiamo accostando all’esperienza della creazione e del nulla.
    Dei suoni possono farci udire il silenzio (NdR).
    La frase “Il cielo è azzurro” ci informa che vi è un sostantivo “cielo” il quale è “azzurro”. Questa sequenza di soggetto-verbo-oggetto, nella quale “è” funge da copula che unisce il cielo e l’azzurro, costituisce un nesso di suoni, sintassi, segni e simboli in cui siamo elegantemente turlupinati e che, al tempo stesso in cui ci affaccia a quell’ineffabile cielo-azzurro-cielo, ci separa da esso.
    Il fondamento dell’essere di tutte le cose è il rapporto che c’è tra di loro. (Ndr)
    L’esperienza dell’essere realmente il veicolo di un continuo processo creativo pone al di là di depressioni, persecuzioni o vanaglorie, al di là anche del caos e del vuoto, proprio dentro al mistero di quel continuo irrompere del non essere nell’essere e può costituire l’occasione di quella grande liberazione che è il passare dall’avere paura del nulla al sapere che non c’è nulla di cui avere paura. Nondimeno è molto facile smarrire la strada in ogni momento, e soprattutto quando si è più vicini alla meta. Il destino che attende il creatore, dopo di essere stato ignorato, trascurato, disprezzato, è quello di essere scoperto, fortunatamente o meno a seconda dei punti di vista, attraverso il non-creativo.
    Le parole di una composizione poetica, i suoni in movimento, il ritmo che scandisce lo spazio, sono tentativi di ricuperare un significato personale e rinchiuderlo in un tempo ed in uno spazio personali, al di fuori degli spettacoli e dei suoni di un mondo spersonalizzato e disumanizzato; sono teste di ponte gettate in territorio nemico, sono atti insurrezionali. La loro sorgente è quel Silenzio che c’è al centro di ognuno di noi.
    La regione del nulla, del silenzio dei silenzi, è essa l’origine: noi dimentichiamo che siamo là interamente ed in ogni momento.
    Per un uomo alienato dalla propria sorgente interiore, la creazione nasce dalla disperazione e finisce nel fallimento; ma quest’uomo non ha percorso la via che conduce alla fine del tempo e dello spazio, alla fine dell’oscurità e della luce: non sa che dove tutte queste cose finiscono, proprio là esse incominciano.

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