“Che ne è del superuomo, quello che,
con le parole di Goethe, si lamenta con il destino
perché gli ha dato sguardi profondi?
U.Galimberti
In un un saggio di qualche tempo fa intitolato “Storytelling 3: la soglia“, in cui riflettevo sul senso psicologico di crisi, consideravo che è nostro compito, al di là delle nostre convinzioni politiche o del nostro impegno sociale, quello di interrogarci sul significato di ciò che ci sta accadendo.
Scrivevo che, anche se la crisi finirà perché qualcuno riuscirà a traghettarci fuori dal guado, “…questo non dovrebbe esimerci dalla riflessione sul passaggio, innanzitutto psichico, in cui stiamo indugiando. La crisi non è che un esempio di soglia collettiva. Può diventare un’occasione per cogliere l’intensità del momento e per descrivere il mondo in un modo nuovo o restare un evento senza senso, subito e non compreso. Qualcosa che non ci farà cambiare perché non saremo riusciti a raccontarlo e a leggerlo o qualcosa che ci trasformerà perché saremo riusciti ad usarne l’intensità.”
Sulle soglie la riflessione dovrebbe approfondirsi, nei momenti di passaggio dovremmo poter pescare giù, nel fondo della nostra anima e cogliere pensieri che siano all’altezza del momento, formulare idee che ci accompagnino nel passaggio e in qualche modo ci trasformino o, perlomeno, ci diano la forza per andare avanti.
Questa è la mia convinzione che, credo, sia suffragata anche da una concezione filosofica che, basandosi su uno dei miti portanti del nostro mondo, quello dell’eroe che affrontando mille ostacoli trasforma se stesso nell’impresa, insiste sulla capacità dell’essere umano di apprendere dall’esperienza e far sì che gli eventi diventino conoscenza.
In questa visione del mondo la soglia è interpretata come un passaggio obbligato non solo perché ci è inflitto dalla vita ma anche perché decidiamo di farci carico del frangente che stiamo attraversando; decidiamo, insomma, di essere, anche se nostro malgrado, protagonisti del dramma che stiamo vivendo.
Sembra esserci però anche chi, ragionando da tutt’altro punto di vista, considera che le soglie vanno piallate: la vita va resa il più lineare possibile, i momenti di passaggio vanno svuotati dal loro carico di angoscia ed è meglio, se possibile, non sottoporsi a troppi sbalzi, passare indenni anche dai momenti più complicati.
Immagino che sia seguendo questa “filosofia” che gli psichiatri incaricati di redigere l’ultima versione del DSM (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Psichici) hanno deciso di togliere una soglia finora considerata inviolabile: quella che differenzia la depressione maggiore, intesa come malattia, dal dolore psichico derivante dal lutto per la scomparsa o la perdita di una persona amata.
Rimando all’articolo apparso su Repubblica per una serie di considerazioni economico -politiche sulla scelta di somministrare antidepressivi anche a chi soffre a proposito e non può che essere depresso visto che la vita gli ha tolto un affetto infliggendogli un vuoto che, spesso, rimane per lungo tempo incolmabile.
Faccio, invece, qui di seguito alcune riflessioni più psicologiche o, come avrebbe detto Hillman, più consone a Psiche.
Perché diavolo una persona non dovrebbe sentirsi male, non aver voglia di vivere, di lavorare e di impegnarsi dopo la morte o la perdita di una persona cara? Perché non dovrebbe stagnare per un po’ nella palude e vagare come un’anima in pena lamentandosi e sentendosi malata e un po’ morta?
Finora per considerare patologico un lutto doveva succedere che la persona che lo stava vivendo cominciasse a delirare, a non riuscire ad alzarsi dal letto per lungo tempo, a deperire ecc.
Ora, invece, l’idea è che un farmaco, provato su un campione esiguo di persone, possa aiutare a…. a far cosa? Come dovrebbe stare una persona dopo un lutto? Dopo quanto tempo dovrebbe iniziare a vivere normalmente? Ma, soprattutto, per quanto dovrà prendere il prodotto che, attenuando i sintomi, gli renderà la vita meno dura?
Rispondere a queste domande significa svelare, magari anche a se stessi, un po’ della propria filosofia di vita; un po’ delle proprie credenze su cosa sia davvero salute e cosa sia davvero malattia!
Personalmente credo che ci siano dei dolori che non vanno evitati. Credo che sia importante lo sguardo con cui vanno osservati e il lavoro meticoloso con cui vanno trasformati.
Concordo in questo pienamente con U.Galimberti che parlando di clinica e di super-uomo e della distanza che separa chi chiede solo di essere sereno (una vogliuzza per il giorno e una per la notte, fatta salva la salute, diceva Nietzsche) e chi, invece, pretende di guardare in faccia la realtà, dice: ” Mi interessa questo intervallo, questa distanza fra clinica e superuomo, che poi non è altro che l’uomo che decide di essere davvero uomo con sguardi profondi e ben fissi sulla Gioia e sul Dolore.”.
Questo intervallo è una soglia cruciale che, come un bivio, ci pone di fronte ad una scelta: un coraggioso sguardo sul dramma, sull’impermanenza e sulla forza necessaria per andare avanti, da una parte e, dall’altra, un filtro che attenui il dolore appannando appena un po’ la vista, rendendo più ovattata la mancanza e meno vivido il contrasto fra il prima e il dopo.
E non è una soglia solo individuale: una volta il lutto veniva portato non solo dalla persona ma anche da chi le stava accanto e questo portare insieme, questo guardare in faccia con l’altro il dolore, era un modo per incontrarsi e per riempire almeno un po’ la distanza fra chi stava soffrendo e chi, lì a fianco, cercava di guardare nella stessa direzione.
Nessun farmaco sostituirà questa vicinanza!
Vogliamo davvero che, insieme al dolore, venga attenuata la nostra empatia e che una medicina mimi una “salute” che toglie profondità al nostro sentire? “E se questa salute la si mettesse davvero in gioco per perderne un po’ in faccia alla Gioia, in faccia al Dolore?” (U. Galimberti)