“C’era così tanto da grokkare,
e così poco da cui grokkarlo…”
R.A.Heinlein
Il termine inglese Grok è un neologismo usato per esprimere l’idea di comprendere completamente, assimilare, portare dentro in modo che, poi, il concetto sia completamente integrato nella conoscenza che è già lì e diventi parte della saggezza e del modo di agire di una persona.
“Il verbo (“grokkare”) fu inventato da Robert A.Heinlein nel suo romanzo Straniero in terra straniera dove era una parola marziana che significava letteralmente “bere” e, per senso traslato, figurativamente “comprendere”, “amare” o “essere uno con”.” (Wikipedia).
I neologismi hanno, a volte, il pregio di cogliere e di coagulare lo spirito del tempo e “to grok” ha attecchito bene nella cultura degli anni ’60.
Era un periodo in cui i concetti di integrazione e di comprensione profonda smisero di essere semplici idee e si trasformarono, per molti, in ideali: qualcosa per cui spendere, in certi casi, un’intera vita.
Naturalmente non è che, prima, l’idea di assorbire in sé un concetto, una comunicazione o una persona (l’Altro che spesso ci spaventa e che, tuttavia, possiamo provare a capire profondamente), fosse estranea al sentire comune o non fosse stata teorizzata.
Basta leggere quel che Platone fa dire a Teage, un discepolo di Socrate, per capire quanto egli fosse intento a grokkare, migliaia di anni prima che la parola venisse coniata, ciò che Socrate diceva, trasmetteva, comunicava con la presenza oltre che con le parole: “Una cosa o Socrate devo dirti che troverai incredibile ma che nondimeno è vera. Io non ho mai imparato niente da te come tu ben sai. Tuttavia progredivo quando stavo con te: anche solo quando ero nella stessa casa, ma non nella stessa stanza; e quando ero nella stessa stanza, tenevo fissi gli occhi su di te mentre parlavi e mi pareva di progredire più che se avessi guardato altrove. Ma massimo era il mio progredire allorché sedevo accanto a te e ti toccavo.” ( tratto da : James Hillman “Il mito dell’analisi” pag. 90).
Mettendosi nella condizione di “bere” ciò che l’altro dice si ha l’occasione di portare dentro di sé e di integrare la conoscenza che egli esprime, la bellezza che incarna e l’energia, la forza vitale, che mette in ciò che da lui emana.
Sia che “l’Altro” sia Socrate sia che sia un libro, un’opera d’arte o uno spettacolo della natura a cui stiamo assistendo, se ascoltiamo con attenzione coglieremo almeno in parte le intenzioni di chi ha scritto, dipinto, composto, progettato… o, comunque, metteremo la nostra libido, la nostra energia psichica, dentro all’oggetto che abbiamo di fronte.
Grokkare è, in questo senso, spendersi: decidere di investire davvero la nostra attenzione per entrare dentro, cogliere, creare un ponte su cui possa fluire ciò che, altrimenti, resterà fermo dall’altra parte.
Le cose possono essere interessanti ma è il nostro essere interessati che rende possibile quel flusso che trasporta informazioni e energia, conoscenza ed emozioni, novità (qualcosa di nuovo, non ancora conosciuto o conosciuto solo in parte) e sentimento.
E la profondità del nostro interesse è determinata non solo, come in modo un po’ naif capita spesso di pensare, da quanto interessante è una cosa, quanto dalla nostra capacità di “Afferrare la fondamentale differenza che intercorre fra uno stato aperto, ricettivo e uno stato chiuso, reattivo” (Siegel).
Ognuno di noi è, da sempre, un’apertura sul mondo: siamo sempre di fronte alle cose, alle idee e alle persone.
Spesso lo siamo automaticamente e, come dicevo in uno degli ultimi post c’è un esercito di formiche indaffarate che aiuta Psiche a cavarsela per non essere sopraffatta dall’immersione nel mondo.
Ma possiamo fare qualcosa per dirigere più precisamente la nostra attenzione, per acuire la nostra consapevolezza e per esercitare la nostra umanità . Possiamo chiederci quanto ci stiamo difendendo. Quanto reagiamo automaticamente al mondo e quanto, invece di promuovere l’integrazione, manteniamo o l’isolamento o quella simbiosi che paralizza i rapporti eliminando la differenza e la distanza senza favorire lo scambio e al comunicazione.
L’integrazione non è infatti mera uguaglianza ma differenziazione e collegamento. In un organismo le cose funzionano non perché tutti gli organi sono uguali ma perché “grokkano fra di loro” mantenendo le differenze e favorendo la comunicazione!
Se cominciassero a difendersi o ad isolarsi il risultato non sarebbe uno stallo o una crisi di governo ma una catastrofe. In una mente e in una relazione le cose vanno nello stesso modo: solo l’ostinato tentativo di incontrarsi tiene insieme armonicamente le parti.
E il bello della faccenda è che l’integrazione apre la porta a nuove scoperte e ad una più grande capacità di esplorare e di approfondire.
Il progredire di cui parla il discepolo di Socrate è questo sentire che: “… in generale, quando stiamo bene e ci sentiamo a nostro agio, ci muoviamo lungo questo sentiero tortuoso dell’armonia, il flusso integrato di un sistema flessibile. Percepiamo qualcosa di familiare ma non ci sentiamo presi in trappola da esso. Viviamo sulla soglia dell’ignoto e abbiamo il coraggio di muoverci in acque nuove e mai solcate prima. Ciò è vivere la vita come si dispiega momento per momento, in un viaggio fluente fra rigidità e caos.” ( Siegel ).
Non finirò mai di leggerla, DrDedalo e di ringraziarla per gli stimoll preziosi che mi danno i suoi scritti, vecchi e nuovi. La ringrazio infinitamente per il suo linguaggio che si fa ricerca e che rende evidente che lei essenzialmente scrive per sé stesso. Alcuni passaggi di quanto scrive, come quest’ultimo su “l’ostinato tentativo di incontrarsi (che) tiene insieme armonicamente le parti”, spesso continuano a lavorare in me per giorni, producendo nuove immagini e passaggi ulteriori in me.
In questo post lei ha parlato di simbiosi,in una relazione, come qualcosa che “paralizza i rapporti eliminando la differenza e la distanza senza favorire lo scambio e al comunicazione”. Alla luce della sua esperienza e del suo sentire potrebbe dirmi qualcosa di più a riguardo? Il bisogno di simbiosi può convivere all’interno di una personalità che ha fame di conoscere sè stesso e che continua a interrogarsi sulla relazione tra sè stesso e “l’acqua” attorno a sé ( e mi riferisco al meraviglioso suo post che riprendeva il testo di Foster Wallace)?
Grazie del commento, Elena. Quella che mi poni è una domanda che richiede una risposta vasta e articolata; è anche una domanda stimolante che chiede di riflettere su cosa sia l’affinità: quella funzione che ci spinge verso le cose e gli altri esseri umani e che ci “allontana” da altri. Una domanda che merita un post come risposta. Direi quindi che, in uno dei prossimi che leggerai, se mi vedrai parlare di affinità e di conflitto, troverai alcune parziali risposte che illustrano il mio punto di vista sull’argomento. A presto, quindi; e se le risposte porteranno ad altre domande… ben vengano: siamo qui per questo.
Pingback: Ripetere, ricordare, dimenticare | Forme Vitali
Pingback: Sull’integrazione: apprendere dall’esperienza | Forme Vitali