“Ci sono due modi di attraversare la vita in modo agevole:
credere a tutto e dubitare di tutto.
Entrambe i modi ci salvano dal pensare”
Alfred Korzybski.
Mi faceva notare un amico che le formiche della mente di cui ho parlato nell’ultimo saggio sono come degli algoritmi, delle piccole macchine di calcolo interne che svolgono un lavoro prezioso senza il quale la nostra percezione della realtà non sarebbe che un caos privo di senso.
Semplificare il mondo riducendo l’enorme numero di stimoli e di possibili spiegazioni e interpretazioni degli stimoli ci permette di creare una sorta di ordine che lascia la confusione sullo sfondo e che ci consente una vita più tranquilla con meno dispendio di energie.
Una volta che so che un determinato oggetto è quella cosa, crea quegli effetti, mi dà certe sensazioni, può essere usato per… posso mettere da parte ogni diffidenza e smettere ogni indagine sul suo conto: lo conosco, lo so usare, so che non mi farà male ecc.
Eppure, proprio questa capacità della mente di filtrare l’universo e sistemarlo all’interno di una cornice interpretativa immutabile può portare con sé, insieme alla semplificazione, anche una serie di effetti collaterali pericolosi.
Nel mio settore, ad esempio, nella Psicologia in generale e nella Clinica in particolare, il tentativo di ridurre la vita psichica ad un unica origine o un determinato sintomo ad un unica causa ha prodotto, dal mio punto di vista, più guai che risultati.
Il riduzionismo è una teoria e un approccio filosofico che,in generale,sostiene che gli enti, le metodologie o i concetti di una scienza debbano essere ridotti a dei minimi comuni denominatori o a delle entità il più elementari possibili.
Nelle scienze e in molte altre discipline quasi scientifiche, come la medicina, il riduzionismo è servito, tra l’altro, per restringere il campo della ricerca e per costringere chi si dedica allo studio di un determinato oggetto ad affrontarlo con un metodo rigoroso e con la possibilità di condividere con chiunque i risultati della propria ricerca.
E’ vero che studiare il cervello a sé stante o l’ osservare la mente come un prodotto dell’attività dei neuroni ha favorito numerose scoperte nell’ambito della neurologia e della neuro psicologia, ma è altrettanto vero che, dal punto di vista clinico, pensare la mente solo come il risultato dell’attività del cervello è di poco aiuto.
L’idea di ricondurre un sintomo ad uno scompenso chimico piuttosto che ad una rigidità mentale che, a sua volta, determini, ad esempio, una conversione isterica, o il pensare che sia una condizione sfavorevole dell’ambiente in cui la persona vive che la costringe a reazioni emotive dolorose, non sono che facce della stessa medaglia.
Considerare la mente, il cervello e la relazione come entità separate porta all’errore di quei ciechi della parabola dell’elefante: ognuno di loro non toccando che una parte dell’animale ne dà una definizione parziale: le orecchie diventano degli enormi ventagli, la proboscide uno strano braccio e le gambe delle colonne piantate nel terreno.
Per quel che ne sappiamo ( e se restiamo nell’ambito dell’osservabile), senza cervello non ci sarebbero né la mente né la relazione, ma non esiste essere umano che abbia sviluppato un cervello senza essere in relazione, fin dalla vita intra uterina, con un altro essere umano e con il mondo.
E, soggettivamente, nessuno di noi può dire di essere senza una mente, senza emozioni, pensieri, convinzioni, sentimenti… e senza la capacità di fare qualcosa per muoverli, provarli, tentare di fermarli o di comunicarli agli altri all’interno di un rapporto.
Insomma, ogni volta che guardiamo ad una donna, ad un uomo o ad un bambino, non possiamo prescindere dallo scorgere: mente, cervello, relazione.
Ecco perché ogni volta che si riduce la vita psichica di una persona ad uno solo di questi fattori la si impoverisce e, nell’illusione di trovare una spiegazione semplice, si buttano via una quantità di interpretazioni utili che possono invece arricchire la nostra visione.
Nel tentativo di allontanarsi dalla sponda del caos si va a naufragare sulla riva della rigidità.
Ho visto persone molto intelligenti perdersi in spiegazioni “semplici” dando retta a banalità come: la depressione è solo uno scompenso nella chimica del cervello… siamo il risultato delle nostre esperienze… è tutta una questione di geni… .
Verità parziali che diventano pericolose amputazioni di parti fondamentali della persona e del suo modo di essere nel mondo o, per restare nella metafora delle formiche, risultati delle elaborazioni di un gruppo di algoritmi che se ne escono con un qualche tipo di “spiegazione unica” che risolve in modo veloce il problema senza tener conto dei risultati che altre parti, da altri punti di vista, hanno elaborato.
Scoperte che sono spesso un naufragio dal punto di vista scientifico ma altrettanto spesso un successo dal punto di vista del marketing. Basti pensare ai toni trionfalistici di certi psichiatri che non più di vent’anni fa parlavano dei nuovi farmaci antidepressivi come della panacea che avrebbe sconfitto per sempre la piaga del “male oscuro”.
Da allora il numero dei depressi è incredibilmente aumentato e, allo stesso tempo, sono esponenzialmente aumentati gli utili realizzati dalle case farmaceutiche che producono gli ormai vecchi farmaci antidepressivi che, nel frattempo, si sono rivelati utili anche per curare nell’ordine: il tabagismo, il gioco d’azzardo e lo shopping compulsivo, i disturbi alimentari e… la sindrome delle gambe insonni (sic).
(Naturalmente anche le diagnosi per questi disturbi sono in questi anni molto aumentate).
Questo non significa né che i farmaci antidepressivi non funzionino né che vedere la depressione e gli altri disturbi anche come uno scompenso nella chimica del cervello non sia utile.
Ma la parola chiave deve essere “anche“! “Anche” ci permette di tenere conto di altri punti di vista.
La crisi economica, le pubblicità e il gioco d’azzardo on-line, il marketing delle case farmaceutiche, il precariato, la mancanza di momenti di riflessione sono altrettanti pezzi di spiegazione che, presi da soli, non possono darci una piena comprensione del fenomeno, ma che non possono essere esclusi a priori dalla discussione sulle sue cause.
Conviene, naturalmente, tener fuori dall’indagine quelle spiegazioni che sappiamo essere meno plausibili: non è probabilmente il caso di pensare a fenomeni di possessione demoniaca o a maledizioni lanciate da fattucchiere e stregoni.
Ma occorre, come antidoto al riduzionismo, puntare all’integrazione fra possibili interpretazioni e alla sinergia fra approcci diversi.
Ridurre può salvarci dal caos; integrare ci permette di contrastare la rigidità .
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