Spiriti famelici

“Il dolore è fisico, la sofferenza è mentale.
La sofferenza è dovuta interamente all’attaccamento
o all’opposizione; è un segno di non disponibilità
a muoversi, a fluire con la vita”
Nisargadatta

Nella mitologia del Buddismo Tibetano i Preta sono spiriti famelici. Abitano uno dei “gironi” del Samsara e rappresentano l’appetito insaziabile, il desiderio che non può mai essere veramente soddisfatto. Sono rappresentati come degli esseri con enormi bocche e piccoli colli che non lasciano passare il cibo che la loro smodata fame li spinge a cercare in continuazione. I loro ventri sono gonfi e infiammati come se anche quel poco che sono riusciti a fatica ad ingurgitare li stesse avvelenando.

La ricerca di soddisfazione non avrà mai fine e la loro pena continuerà a meno che non ascoltino ciò che ha da dire il Buddha, l’illuminato che, visitando il loro mondo, offre loro l’antidoto: la Consapevolezza che, se assunta nelle giuste dosi e abbastanza a lungo, libera dal desiderio compulsivo e dal bisogno incontrollato.

Fuori dalla metafora, che tuttavia rende bene l’idea, gli spiriti famelici rappresentano quegli adulti che non sono riusciti a trasformare le loro aspettative in aspirazioni.

Così come i Preta non sono, letteralmente, spiriti famelici, anche questi adulti non sono una razza particolare ma, piuttosto, un aspetto di ognuno di noi: quella parte di bambino insoddisfatto e incontentabile che, in certi momenti, ci capita di diventare.

Non c’è niente di male nel fatto che un infante sia pieno di bisogni: siamo una specie che cresce molto lentamente e si può dire che siamo programmati geneticamente per suscitare negli altri, finché sembriamo dei cuccioli, il desiderio di soddisfare i nostri desideri. Il nostro cervello di adulti va in allarme e si attiva con il pianto di un neonato più che con tantissimi altri stimoli.
Ma cosa succede quando il neonato che rimane parcheggiato da qualche parte dentro di noi comincia a frignare? Come rispondiamo emotivamente a quello che possiamo raffigurare come uno spirito famelico interiore, avido di… non si sa bene nemmeno che cosa?

Se andiamo in allarme e cominciamo a guardarci in giro per trovare ciò che manca al nostro bambino e se ci precipitiamo a soddisfare il suo bisogno pur di placarne la fame, non facciamo altro che perpetuare una condizione di necessità e di dipendenza in cui le richieste si soddisfano solo momentaneamente e il ciclo di vuoto/pieno/vuoto si ripete in continuazione.

Quella che Winnicott definì Good Enough Mother (madre sufficientemente buona) non è semplicemente una madre che soddisfa i bisogni ma un adulto che si prende cura in modo autentico dell’altro.
E la cura autentica, come disse Heidegger, è quella che insegna al bambino/paziente/assistito bisognoso, a prendersi cura di sé: ad essere consapevole dei propri desideri comprendendoli.

La domanda che la soddisfazione immediata del bisogno evita è: “Cosa desidero veramente?”. Nessuno può rispondere se non noi stessi. E la risposta deve passare dal contenimento del desiderio!
Il ché non significa che dobbiamo rinunciare a ciò che stiamo desiderando né che il nostro desiderio non sia legittimo ma che, un conto è aspettarsi il soddisfacimento, un altro è aspirare a ciò che ci porterà a raggiungere ciò che veramente desideriamo.

La parola chiave è “veramente”: uno spirito famelico non solo non sa bene cosa vuole ma, continuando a desiderare senza chiederselo, smette di pensare e si costringe in una posizione in cui può essere solo un bambino bisognoso, un consumatore bulimico, un adulto frustrato.

Il primo passo per passare dalle aspettative alle aspirazioni e dalla dipendenza all’autonomia è chiedersi “Cosa sto veramente desiderando?”.
Non c’è una risposta veloce. “Quando ciò che seminiamo cresce in fretta quella è la stagione dei raccolti magri” (Rumi).

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