“La presentificazione consiste nel
rendere presente uno stato della mente
e un gruppo di fenomeni”
P.Janet
A proposito di pandemoni: com’è che da tanto vociare interno, dalla scarica di milioni di neuroni e dall’accozzaglia di percezioni che arrivano (arrivano?) alla coscienza, si riesce a ricavare un senso, una qualche idea di soggetto/oggetto stabile che sta, si oppone, si allinea o si sovrappone al mondo? Che ne sarebbe di ognuno di noi senza memoria?
Cosa dobbiamo tatuare sul nostro corpo o nella mente per riconoscerci e riconoscere ciò che ci circonda?
L’idea stessa di ri-conoscere implica il processo della memoria e del “conoscere un’altra volta” e il ri-cordare è il portare nuovamente al cuore visto che cordis in latino è cuore, la sede, secondo gli antichi, della memoria. Insomma il ri-petere, il fare un’altra volta come se dall’uguale e dal noto fosse possibile far nascere la continuità.
E da tutto questo, fuori da questo pandemonio che ha in sé, o sembra avere, ricorsività, la sensazione della continuità d’essere.
Da qui l’Io: quel soggetto che ci piace considerare l’Uno per eccellenza e a cui non rinunceremmo mai ma che, ad una analisi approfondita, sfugge ad ogni definizione stabile e all’idea stessa di oggetto, identificabile, raggiungibile e afferrabile.
Eppure: “E’ l’io, principalmente grazie alla sua funzione sintetica, che permette di integrare le esperienze di disintegrazione. Se l’io fosse davvero assente, vi sarebbe solo disintegrazione e uno stato del genere si manifesterebbe come psicosi.” (M.Epstein)
Insomma è grazie a questa sorta di oggetto inafferrabile e indefinibile che riusciamo ad afferrare e a dare un senso alla realtà.
Un bel casino! Ma capita spesso in seduta, ad esempio, durante o subito dopo una trance, o in un momento in cui le identità stesse di terapeuta e paziente sembrano confondersi, di assistere alla formazione di questa nuvola che da vapore invisibile prende forma e consistenza per esprimersi e poi disgregarsi ed esprimersi ancora.
E’ un “Io”, magari non proprio “l’Io”, ma uno dei tanti che spesso si assomigliano ed escono dallo sfondo per narrare una parte di storia e condensarla con un’emozione, un sentimento, una risata, un pianto.
L’Io come centro di gravità narrativo, ha detto qualcuno, Dennett mi sembra.
E’ anche questa una metafora ma, come ripeto in questo blog, le metafore sono strumenti per catturare oggetti altrimenti inafferrabili. Retini per le nuvole, trappole per il vento, altari per gli dei, palcoscenici per l’Io.
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