“Non bisogna fare della psicologia
da rigattieri! Mai osservare per osservare.
Ciò determina un’ottica falsa, una vista obliqua,
qualcosa di coatto e di iperbolico”
F.Nietzsche
Ci sono argomenti che si associano, si rincorrono e si intrecciano nelle descrizioni che un terapeuta offre ad un paziente per osservare, da un’altra angolazione, i sintomi, la sofferenza e le parti irrisolte che questi porta in seduta. In un blog come questo che, dal punto di vista di chi lo sta scrivendo, non può non riferirsi anche alla pratica clinica quotidiana, succede, ovviamente, la stessa cosa: mi pongo una sorta di obiettivo didattico, una traccia da seguire per sviscerare un argomento e renderlo almeno un po’ descritto e mi ritrovo da un’altra parte, seguendo ciò che i pazienti portano in studio o, più probabilmente, ciò che mi colpisce o colpisce di più alcuni di loro in certi momenti.
Fa parte della disciplina del mantenersi vicini allo stato mentale “senza memoria e senza desiderio” che Bion tanto caldeggiava: si colgono certe perturbazioni degli umori che diventano lo sfondo emotivo, il luogo, in cui ci si trova ad agire, ad osservare e ad inter-agire.
E così coatto e iperbolico, due aggettivi rispettivamente connessi alla compulsione, alla coazione a ripetere e alla mania (la grandezza stolta dell’iperbole), diventano lo sfondo delle mie riflessioni di oggi.
Coatto e iperbolico van qui proprio attaccati, a braccetto: coatto nella crescita, nell’avidità, nel continuo raccogliere e accumulare, nell’ostentare e nell’aver bisogno di una corte a cui continuamente esibire e di un cumulo di oggetti che accompagnano, nella coazione, chi continua a prendere indiscriminatamente e senza riguardo per coloro a cui toglie; iperbolico nel senso di grande e grosso e potente e gonfiato (un Suv per la neve, tante case per le vacanze, la barca, i banchetti e ancora l’ostentazione del successo e del potere).
Naturale che, di questi tempi, questa descrizione ci ricordi qualcuno e ci rimandi a figure che anche nella cronaca hanno un posto di primo piano, coatto e iperbolico anche quello perché, “saltano fuori da tutte le parti”, ce li ritroviamo in ogni notizia, in ogni trasmissione e un po’ ovunque nella rete.
Ma non è questo il punto o meglio non è il punto profondo. E’ piuttosto un epifenomeno, qualcosa che emerge (come un’eruzione cutanea a volte) e che è il sintomo di un disturbo più grave e profondo, un disagio che va preso come una malattia e che non può essere curato con “una psicologia da rigattieri” perché è il risultato di una psicologia da rigattieri.
Il rigattiere, che vive in ognuno di noi e che esplode patologicamente nei comportamenti dei meno empatici e dei più inconsapevolmente narcisisti, è una parte della psiche che vive non curandosi del luogo in cui sta vivendo, inconsapevole dello sfondo e dello spazio vitale che lo circonda.
Perde così il contatto con il contesto, il terreno su cui poggia i piedi e con gli oggetti che lo circondano: il suo spazio si svuota, l’immagine che ha di sé si sgonfia ed egli si ritrova ad applicare i rimedi che conosce: altri oggetti (cibo, cravatte, automobili, conquiste), nuovi posti in cui crescere smodatamente.
Ma questo tipo di cura non può che alleviare momentaneamente i sintomi peggiorando, al contempo, il male che li produce.
Infatti: “Chi assume questo atteggiamento ‘impersonale’ è uno spregiatore di uomini, perché conoscitore di uomini è chi si mette sul loro stesso piano e ci si mette dentro.” (Nietzsche). Da un punto di vista psicologico questo mettersi dentro non si limita al semplice riconoscere che si è sulla stessa barca o con gli stessi diritti e doveri ecc.
La domanda psicologica fondamentale è “Dove sto essendo?” (Cfr Cronaca 1 e 2), qual è il luogo in cui avvengono gli eventi a cui sto partecipando? Devo chiedermi se è un sogno, una proiezione, una casa, una piazza. E’ fisico o virtuale? Cosa sto costruendo e con chi sto co-costruendo? Qual è la scenografia, il palco, il pubblico? Possiamo chiederci insieme che cosa stiamo facendo e dove siamo?
Si può svolgere una intera analisi usando solo queste domande. Si può vivere diversamente stando attenti alla posizione che occupiamo nello spazio; non solo quello fisico ma lo spazio della relazione: l’interfaccia fra la mia psiche e quella degli altri.
In questo modo ci si mette dentro! E’ un gesto psichico perché è un passo fondamentale per renderci conto di quella parte di Psiche in cui siamo immersi; qual è il suo umore? Cosa sta saturandone lo spazio e cosa lo sta svuotando? Con quale Genius Loci sono/siamo in contatto quando condividiamo questa qualità di relazione.
Genius Loci è, in questo senso, ciò che emana da un posto che abitiamo mentre lo stiamo abitando.
E’ anche ciò che possiamo cogliere quando ci prendiamo il tempo per sentire dove stiamo essendo, in contatto con quali persone e con quali dei nello sfondo.
E’ pensando in questi termini che possiamo rimediare alla coazione e alla mania o, perlomeno, cominciare a curarle.
Se avesse pensato in questi termini il politico dell’articolo a cui rimando avrebbe colto la somiglianza fra lui e la persona con cui stava interagendo (somiglianza data, innanzitutto, dal luogo virtuale che stavano condividendo) invece della differenza fra “quanti followers” potevano vantare.
Mi rendo conto che, nello specifico, questo è chiedere davvero troppo, ma con i miei pazienti e con chi mi legge ribadisco la necessità e l’utilità di applicare un rimedio che mettendo l’accento sul “dove” cerca non la prima cura che capita ma quella che punta alla guarigione.
Dice Hillman: “Quando sono disperato, non voglio che mi si parli di rinascita; quando mi sento invecchiare e decadere e la civiltà intorno a me sta crollando per un eccesso di sviluppo che è poi un eccesso di potere distruttivo, non posso tollerare la parola crescita; e quando mi sento andare a pezzi nelle mie complicazioni non posso sopportare le difensive semplificazioni dei mandala, né quei sentimentalismi dell’individuazione come unità e totalità. Queste sono formule presentate attraverso una fantasia di opposti: la disintegrazione sarà compensata dall’integrazione, il vuoto riempito da oggetti che mi posso accaparrare. Che dire invece di una cura attraverso la somiglianza, dove il simile cura il simile?” (corsivi miei).
Perché il simile curi il simile (e nei disturbi psichici questo approccio omeopatico funziona) occorre sviluppare prima di tutto un senso del luogo.
Il luogo diventa infatti il substrato in cui siamo immersi ma anche il mezzo e il clima che noi stessi contribuiamo continuamente a costruire.
Coglierlo, sentirlo, mettercisi dentro, sono le condizioni necessarie per rispettarlo, saperlo vivere e, se serve, cambiarlo.