Sulla comunicazione: l’esplicito e l’implicito

Dialogo = vedersi attraverso gli occhi di un altro”
H. von Foerster

Uno dei motivi per cui, come dicevo in “Stati di coscienza: senza memoria e senza desiderio”, è fondamentale per un terapeuta restare insaturo per poter accogliere l’altro, è che, senza questa vuotezza, diventa molto difficile cogliere veramente ciò che l’altra persona sta comunicando.

Assisto spesso a scambi comunicativi che sembrano dialoghi fra sordi e mi accorgo di quanto, invece, non appena viene data alla persona la possibilità di far scorrere il proprio flusso di coscienza, diventi piacevole discorrere.

Aumentando anche di poco il rispetto di alcune regole fondamentali della comunicazione, il piacere di raccontare e di farsi capire prende il sopravvento sulla diffidenza, sulla reticenza e sul timore di essere fraintesi.

In seduta questo è in parte dovuto al fatto che se una persona va da uno psicoterapeuta si aspetta di essere ascoltata, compresa, accolta. Si aspetta anche una condivisione e un appoggio e, una volta superata l’idea che lo “strizzacervelli” frugherà nella testa alla ricerca di chissà quale segreto nascosto, e lasciata quindi cadere una prima resistenza, diventa più facile rendere esplicita una quantità di informazioni che, altrimenti, ognuno tiene per sé.

Questo passaggio dall’implicito all’esplicito, questo spiegare e spiegarsi in modo che l’altro possa comprendere i motivi, i bisogni, i desideri, le titubanze, le difficoltà… rende più profonda la comunicazione e significativo il rapporto. Contribuisce inoltre, via via che l’esercizio del comunicare migliora la qualità della comunicazione, a rendere più libere le nostre associazioni.

L’ascolto e l’empatia facilitano l’espressione: il portare verso l’esterno dei contenuti che informano e che, solo se comunicati, fanno la differenza.

Ma non si può esplicitare tutto: nessuna analisi avrebbe mai né il tempo né la possibilità di rendere ogni comunicazione chiara, “spiegata” e ripulita da ogni ambiguità.

E credo che questo non sia nemmeno un obiettivo auspicabile. Lo scopo della comunicazione non può e non deve essere solo la chiarezza o la perfetta comprensibilità. Spesso, infatti, comunichiamo per consolidare e per rafforzare la relazione con l’altro.

Parlare, condividere idee, cercare un accordo o anche, semplicemente, chiacchierare per il piacere di farlo, sono per l’essere umano fini importanti quanto lo scambio di informazioni o la chiarezza del discorso.

Quando due persone si sintonizzano sulla stessa lunghezza d’onda e, grazie a questa sintonia, riescono a sentirsi simili e ad aumentare la reciproca affinità, si crea quello che in psicologia è stato definito Rapport: una condizione comunicativa che rende più intensa e significativa la relazione. E la creazione di un Rapport è, molto spesso, il desiderio che sta sotto ad ogni nostro sforzo comunicativo.

Quando il Rapport è consolidato la comunicazione non ha più bisogno di grandi giri di parole. Per due persone che si intendono uno scambio comunicativo in cui il primo chiede: “E’ vero che in questa città ci sono molti comunisti?” e il secondo risponde: “Non vedo bambini in giro.” è perfettamente logico.

Entrambi possono ridere di tutto ciò che è implicito nella comunicazione: la battuta sul fatto che i comunisti mangiano i bambini, il “buttare sul ridere” una domanda ritenuta superficiale, il sapere da parte di tutti e due gli interlocutori che la risposta può restare sospesa e che quel che conta è, almeno per il momento, la forza della relazione che li lega. (L’esempio è tratto da H.P.Grice)

Ogni complicità si basa su questa possibilità di lasciare implicite una serie di informazioni che sono condivise e che, quindi, non hanno bisogno di essere ogni volta ribadite.

L’ironia è possibile quando la relazione è consolidata e si può lasciare da parte la diplomazia e quel procedere in punta di piedi che caratterizza ogni rapporto in cui non ci si può fidare dell’altro e bisogna stare attenti a ciò che si dice.

Grice nel suo libro “Logica e conversazione” parla del Principio di Cooperazione, una sorta di postulato che sottende alle regole di conversazione implicite a cui ognuno di noi si attiene quando è impegnato in una comunicazione con un proprio simile.

Questo principio dice che non interveniamo casualmente in uno scambio linguistico: lo facciamo, invece, tenendo presente ciò che gli altri stanno dicendo e stiamo attenti alla quantità, alla qualità, alla relazione e al modo in cui gli altri comunicano e in cui noi dovremmo comunicare per sintonizzarci con loro.

Il motivo per cui stiamo attenti alla comunicazione, il motivo per cui cooperiamo sforzandoci di capire e di farci capire, va, secondo me, ricercato proprio nel profondo bisogno di rapporto, di vicinanza e di condivisione che tutti noi portiamo nell’intimo fin dall’infanzia.

Prima dell’amore per la chiarezza e prima del desiderio di esprimere la propria opinione o di contrastare quella di altri, viene questo istinto di relazione che ci spinge a prenderci cura del rapporto che grazie alla comunicazione siamo in grado di creare.

E’ grazie a questo “istinto” che possiamo spendere ore nel tentativo di rendere esplicite le nostre ragioni, chiari i nostri punti di vista e comunicabili i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Ed è sempre grazie a questo “istinto” che sperimentiamo il piacere di capirci al volo lasciando impliciti quei dettagli che, coloro con cui abbiamo creato una relazione significativa, possono cogliere nelle sfumature, nei gesti, negli accenni di citazioni che, in una buona comunicazione, diventano pacchetti di informazione ricchi di senso.

One thought on “Sulla comunicazione: l’esplicito e l’implicito

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