“La consapevolezza non è né difficile
né complessa; la parte più difficile
è ricordarsi di essere consapevoli”
C.Feldman
Nel primo post sulla depressione apparso in questo blog dicevo di essere convinto che, ad esclusione dei casi più gravi (le Depressioni Maggiori o endogene), tanti dei disturbi depressivi abbiano la loro origine in una chiusura, una sorta di rigidità che ci separa dal mondo rendendoci sempre più soli e sempre meno in contatto.
Con questo articolo torno sul concetto di chiusura perché mi rendo conto di non avere spiegato a sufficienza quanto la distanza e la separazione dal mondo, che sono così evidenti nella persona depressa, partano spesso ben prima dell’insorgere dei sintomi depressivi.
La controparte della depressione è infatti la mania: un’esaltazione che, in quello che viene definito Disturbo Bipolare, si alterna ai momenti di giù, quelli in cui la persona sembra aver perso la voglia di vivere, di combattere e di interessarsi alla vita.
Se depressione è giù; mania è su.
Nella fase maniacale l’individuo è impegnato in una sorta di frenesia del fare. Si entusiasma ed è pronto ad attivarsi in mille direzioni, la sua autostima è alta, sente di poter fare grandi cose, dorme poco e pensa velocemente.
Sembra una condizione desiderabile e ci sono persone che pur di ottenerla usano una serie di stratagemmi: droghe, alcool e… qualcosa di più sottile: un modo di pensare e di pensarsi che crea poi una postura, un atteggiamento e un’intera gamma di percezioni che sono in grado di alterare lo stato di coscienza e di dare quella sensazione di attivazione (arousal) che, contrariamente alla depressione, sembra piacevole.
E dico “sembra” perché l’apparente benessere che questo stato porta con sé è in verità una bugia che nasconde, sotto alla superficie, i semi della depressione prossima ventura.
Già Otto Fenichel nel suo Trattato di Psicoanalisi nel 1945 diceva che: “L’entusiasmo maniacale non è segno di libertà genuina dalla depressione bensì una negazione impacciata dei legami di dipendenza.”.
La depressione sta sotto e la mania sopra: in profondità c’è una specie di disperazione, un dolore sotterraneo a cui si sente di voler e di dover sfuggire; sopra non c’è il piacere o il benessere ma una attivazione compulsiva, una fuga in avanti, qualcosa che impegna tutta l’attenzione all’esterno così che non guardando dentro si può negare ciò che sta sotto. Dice ancora Fenichel: “Il carattere trionfalistico della mania deriva dalla liberazione di energia compressa nella lotta depressiva e che ora cerca uno sfogo.”.
La lotta depressiva è una lotta contro la dipendenza. Ogni depresso, ma anche ognuno di noi quando è giù, sta lottando contro una serie di vincoli. “Non ho voglia di andare in ufficio stamattina… non me la sento di caricarmi addosso la giornata… sono stanco di questa vita…”. Chi non ha provato questi stati d’animo? Nessuno è esente da dipendenze: nasciamo come esseri dipendenti e, a differenza degli altri mammiferi, la strada per l’autonomia è, per noi esseri umani, molto lunga e complessa.
Nel depresso la sensazione di dipendenza è particolarmente presente, particolarmente dolorosa. Mentre chi non è depresso riesce in qualche modo a farsi forza: va comunque in ufficio, è in grado di prendere su di sé il peso della giornata e di considerare i vincoli come parti essenziali del gioco; chi è depresso… non ce la fa o ce la fa a stento: protesta così fortemente contro la dipendenza che esaurisce le sue forze nella lotta, comprimendosi, rannicchiandosi, allontanandosi dalla vita.
Dice A. Lowen: “Nella condizione depressiva, l’ego è legato al corpo in uno stato di collasso per essere stato sopraffatto dai sentimenti di disperazione. Lotta per liberarsi e, quando si libera, sorge trionfante, come un palloncino gonfiato di gas che venga abbandonato dalla mano di un bambino e si gonfi sempre di più a mano a mano che sale. Vi è un aumento di esaltazione nella condizione maniacale, ma questo aumento di eccitazione o di carica energetica è limitato alla testa e alla superficie del corpo dove va ad attivare il sistema muscolare volontario, producendo la caratteristica iperattività ed esagerata volubilità.”.
In altre parole, e per restare in questa metafora energetica, mentre nella depressione l’energia della persona è impegnata in una dolorosa e sterile lotta intestina contro un dolore interno, nella mania l’energia si scarica disordinatamente verso l’esterno e “verso l’alto” nell’illusione di un controllo quasi magico sul mondo e sulle cose.
Questa spinta verso l’alto è naturalmente molto incoraggiata dal tipo di società in cui viviamo. Quello che normalmente si dice ad una persona depressa, i vari “reagisci… cerca di stare su… non ti buttare giù…”, nonché gli apprezzamenti per le persone su di tono, quelli che non sono mai stanchi, gli entusiasti, ecc. testimoniano questa tendenza a considerare acriticamente positivo l’alto e negativo il basso.
Quello che sfugge a questa visione superficiale è la sostanziale continuità fra una condizione e l’altra. Ogni stato di esaltazione è destinato a finire e, come dice ancora Lowen: “Effettivamente quando l’individuo cade da uno stato di esaltazione in uno stato di depressione, va talmente giù che gli sembra di essere seppellito in una buca del terreno da cui non può vedere la luce del giorno. Diviene allora necessario aiutarlo a tirarsi fuori, ma ciò può essere fatto solo se il paziente riconosce di non essere mai stato in piedi su un terreno solido. La buca era lì, magari camuffata da rametti e foglie, non abbastanza forti da costituire una solida base per la personalità.”.
E’ mia opinione che questa mancanza di solida base per la personalità sia il risultato di quella chiusura che citavo all’inizio e di cui ho parlato qua e là nei saggi sulla depressione.
In questo senso essere chiusi è non essere in comunicazione con la realtà e con se stessi, è anche un modo per isolarsi verso il basso deprimendosi e considerandosi troppo deboli, fragili e dipendenti per vivere nel mondo; o staccarsi verso l’alto esaltandosi e vedendosi troppo grandi, sensibili, intelligenti, superiori… per stare con il resto del mondo.
Entrambe le strategie sono destinate a fallire perché entrambe si basano su un errore epistemologico fondamentale: la convinzione che l’indipendenza possa essere conquistata con l’isolamento.
E, come spesso succede, l’errore è perpetrato sia nel problema/la depressione che nella “soluzione”/l’esaltazione.
Occorre quindi uscire da questa dicotomia e da questa credenza psicologica che presuppone una cura che perpetua il problema. “Nulla può star su eternamente, nemmeno un albero o una montagna. Ma la durata del tempo per cui sta su dipende da quanto sia ben radicato nel suolo, nel caso dell’albero, o dalla solidità della sua base nel caso della montagna. Per un albero star su non è sinonimo di esaltazione, significa stare eretto.” (A.Lowen).
A questa resilienza, a questa capacità di mantenere una posizione grazie al radicamento (grounding) nella realtà e in se stessi, saranno dedicati alcuni dei prossimi saggi.
Ciao, leggendo il tuo post vorrei capire meglio cosa intendi per “dipendenza”.
A mio avviso l’uono nasce dipendente perchè è inserito in un contesto sociale dare-avere (ad es: dare tempo e ricevere soldi in cambio, nel mondo del lavoro) ed è per questo che sembra sia imbottigliato in una situazione dalla quale non possa mai uscire.
E forse cio che intendi? Perchè se non fosse così, non ci sarebbero difficoltà per il raggiungimento dell’indipendenza (solo dopo aver acquisito le capacità/conoscenze basilari per poter affrontare il mondo.)
Ciao; domandona:-)! In effetti intendo dipendenza più in senso psicologico che sociale: all’inizio, da piccoli, siamo dipendenti perché abbiamo bisogno di cure e di sostegno da parte dei genitori; poi, man mano che cresciamo, la dipendenza diventa più un’idea: il sentire che abbiamo dei vincoli e che dobbiamo “rispondere al mondo”. Quello che Freud chiamava Principio di Realtà è proprio questo sapere che, in questo mondo, dovremo sempre e comunque fare i conti con l’esterno e con le pressioni che esercita su di noi. La Società è, in questo senso, il prodotto di questo esame di realtà: un insieme di regole che “regolamentano il vivere in mezzo agli altri”. Tutti siamo immersi in questo stato di cose e reagiamo ad esso adeguandoci più o meno armonicamente. C’è chi soffre di più e chi di meno. Spesso il depresso è come irrigidito di fronte a queste richieste e le subisce di più rispetto a chi, con più resilienza, è in grado di “starci dentro”. Inoltre questa insofferenza, che in certi casi potrebbe essere il motore per una ribellione anche giusta,è vissuta in chi è depresso più come un conflitto interiore i cui ingredienti sono le richieste del Super io, le resistenze e il senso di colpa. Il risultato molto spesso è un immobilismo tipico della depressione o una ribellione superficiale e esaltata che lascia intatta la realtà, tipica della mania. Spero di averti risposto almeno un po’…ci tornerò nei prossimi saggi. A presto, dr. dedalo.
Grazie per la risposta, sei stato molto esauriente. A presto!
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