“Esiste solo una cosa più vuota
di una vita senza amore, ed è
una vita senza dolore”
Jo Nesbø
“L’orientamento primario della vita è quello di cercare il piacere e sfuggire il dolore. E’ un orientamento biologico, perché a livello corporeo il piacere promuove la vita e il benessere dell’organismo. Il dolore, come tutti sappiamo, viene vissuto come una minaccia all’integrità dell’organismo. Ci apriamo e cerchiamo spontaneamente il piacere e ci contraiamo, ritraendoci, davanti a una situazione dolorosa. Ma quando una situazione contiene una promessa di piacere unita alla minaccia di una sofferenza proviamo ansia.” (A.Lowen, Bioenergetica)
E così difronte al dolore e all’ansia dovuta al piacere di protenderci verso qualcosa che ci piace con il rischio, però, di non ottenerlo o di soffrire durante il tragitto, tendiamo a mobilitare le nostre difese e a bloccarci in una sorta di freezing che sembra mantenere lo status quo ma, in verità, blocca la nostra energia psichica e fisica.
Sembra che tutti noi, rappresentanti moderni dell’uomo occidentale, non riusciamo a sfuggire a questa sorta di ingiunzione di minimizzare il dolore e massimizzare il piacere. E’ una tendenza che consideriamo spontanea e in un certo senso, biologicamente, lo è.
Eppure gran parte del dolore cronico che i pazienti che vengono in seduta lamentano è dovuto proprio a questo tentativo disperato di attivare le difese contro un dolore che spesso è più paventato che reale. Tanta parte del nostro fare compulsivo altro non è che un tentativo di anestetizzare un qualche tipo di dolore supposto o di procacciarsi un qualche piacere effimero che dovrebbe aumentare la nostra sopravvivenza.
Ho visto pazienti che hanno rincorso per anni un amore impossibile e altri che si sono impediti di vivere profondamente un rapporto per paura di soffrire. Ne ho seguiti certi che si consideravano tremendamente infelici (e lo erano) perché non riuscivano a raggiungere obiettivi che non erano i loro obiettivi di oggi ma gli scenari che si erano prefigurati da bambini: uomini adulti che cercavano nelle loro donne l’amore incondizionato che non avevano ottenuto dalle loro disattente madri e donne considerate logorroiche dai loro mariti perché chiedevano quell’ascolto che il loro, superimpegnato, padre non aveva mai dato.
Dice Lowen: “Questa sequenza – ricerca del piacere → deprivazione, frustrazione o punizione → ansia e poi → difesa – è uno schema generale che spiega tutti i problemi della personalità.”.
Concordo pienamente con lui e come dicevo nell’ultima cronaca (Cronaca 12 – Hypnos: lo stato di Trance) la mia risposta e quella di molti terapeuti è quella di insegnare a questi pazienti ad agire meno.
Quella che chiamo capacità di non agire è ciò che gli antichi Cinesi chiamavano Wu Wei: il fare del non fare.
Non agire, in questo senso, significa, innanzitutto, accorgersi dei propri automatismi, prendere consapevolezza delle proprie difese, evitare di metterle in atto.
Naturalmente è più facile a dirsi che a farsi. Gran parte delle difese, infatti, sono inconsce: una volta che si sono installate tendono a funzionare da sole. Ricordo una storiella che ho letto da qualche parte in cui si parla di un terapeuta che cercava disperatamente di convincere un paziente depresso a cambiare la propria idea riguardo a se stesso. Il paziente insisteva nell’affermare di “essere morto” e nonostante tutti gli sforzi del terapeuta per dimostrargli il contrario non ne voleva sapere di cambiare idea. Ad un certo punto lo psicologo esasperato prese un compasso e gli ferì la mano esclamando: “Vede… lei sanguina, e i morti non sanguinano”. Il paziente osservando il sangue che usciva dalla ferita commentò: “Accidenti, dottore, non sapevo che i morti sanguinassero!”.
La difesa era troppo ben installata per poter essere contrastata sia dalle parole che dai fatti. La soluzione con questo tipo di pazienti (e ognuno di noi è così in qualche settore della propria vita relazionale o psichica) è quella di aiutarli a prendere contatto con il proprio corpo e con il proprio inconscio.
E’ necessario cioè un qualche tipo di Trance: uno stato di coscienza modificato che prescinde dall’Io.
L’Io è infatti il padrone delle difese: quell’istanza interna che si è specializzata a difendersi dalle richieste del Super-io (ciò che in noi dice fai ciò che è giusto) e da quelle dell’Es (quella parte che ci spinge a fare ciò che ci piace). Diceva Freud che l’Io è come un piccolo tiranno al servizio di due padroni. Stretto fra le richieste “ideali” del Super-io e quelle istintuali dell’Es, ciò che fa è, essenzialmente, difendersi: cercare di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore barcamenandosi fra il conformarsi e il lasciarsi andare all’istinto.
Prescindere dall’Io significa anche insegnargli a stare fermo e a non fare: non agire le difese ma osservare, lasciar andare lo sforzo, diventare consapevole di cosa lo spinge e, invece di ubbidire/disubbidire… lasciar scorrere, sentire fino in fondo, cogliere l’intensità della situazione, approfondire.
Quando, in seduta, chiedo ad una persona di stare con le emozioni che sta sperimentando, di non scappare subito davanti al dolore che sta provando e di sentire con il proprio corpo l’energia del sentimento che lo pervade; gli sto chiedendo di modificare il proprio stato di coscienza.
E quando accetta di non fare niente lo stato di coscienza cambia; la tirannia dell’Io lascia il posto ad una condizione in cui l’inconscio incomincia e svolgere la propria azione fondamentale: vivere ciò che si presenta così come è. In questo stato di coscienza le emozioni si sciolgono, il dolore e il piacere trovano lo spazio per manifestarsi e per essere sperimentati e compresi. E’ in questi momenti che le difese, attenuandosi, permettono una visione più ampia.
Ed è a partire da questa visione più ampia che un qualche cambiamento diventa possibile.
Nel fare del non fare invece di agire compulsivamente per reprimere il dolore e ricercare a tutti i costi il piacere, si sta fermi e si osserva “tutto questo” con un occhio diverso.
Di fronte a questo atteggiamento quello dell’Io diventa insipido.
Come ha detto mirabilmente Hillman in un articolo del 1981 apparso su Spring (intitolato non a caso “Salt”): “Possiamo immaginare le nostre profonde ferite non più soltanto come lacerazioni da rimarginare, ma come cave di sale dalle quali trarre un’essenza preziosa e senza le quali l’anima non può vivere. Il fatto che si ritorni sempre di nuovo a queste profonde ferite, piene di rimorso e rimpianto, di pentimento e di desiderio di vendetta, è indicativo di un bisogno psichico che trascende una mera, meccanica coazione a ripetere. Vuol dire che l’anima possiede un impulso a ricordare; è come un animale selvatico che torna a leccare gli stessi terreni salati; l’anima si lecca le ferite per trarre di lì sostentamento. Noi produciamo sale quando soffriamo e, elaborando le nostre sofferenze, aggiungiamo sale, guarendo così l’anima dalla sua malattia da carenza di sale.”.
Un effetto collaterale positivo di questo buon uso del sale alchemico, di questa capacità di aggiungere un pizzico di sale che insaporisce e rende bruciante l’esperienza, è quella che Maslow definì Peak Esperience: l’esperienza oceanica del momento in cui l’Io si toglie di mezzo.
E’ un momento in cui il piacere e il dolore diventano nient’altro che le facce della stessa medaglia.
La scomparsa dell’Io in questi istanti è accompagnata dalla comparsa del mondo con la sua indicibile sovrabbondanza.
Credo fosse commentando uno di questi stati che Leopardi scrisse “… e il naufragar m’è dolce in questo mare.”.
E qui parte l’applauso. 🙂
maslow, oh, maslow! grazie dell’utilissimo post.