“Con questi frammenti
ho puntellato le mie rovine”
T.S.Eliot
C’è un continuo lavoro che la psiche compie per dare un senso alla miriade di eventi che capitano nello spazio e nel tempo che abitiamo.
Quella che definiamo esperienza soggettiva è qualcosa di molto diverso dal semplice essere immersi nel momento presente. Infatti: “I momenti presenti sono incredibilmente densi e racchiudono numerosi eventi – per quanto di breve durata… Consideriamo momento presente tutto ciò che attraversa la scena mentale adesso, indipendentemente dal fatto che si tratti di un oggetto reale o virtuale… Il momento presente è un singolo evento, una gestalt. L’unità psicologica soggettiva è l’intero, non gli elementi che lo compongono.” (D.N.Stern, 2004).
Questa sorta di predilezione per l’intero è, da un punto di vista finalistico, ciò che spinge la mente ad applicare dei filtri e ad escludere dalla consapevolezza una serie di pensieri, percezioni, piccoli eventi e gesti automatici che, se fossero presi in considerazione tutti insieme, creerebbero una specie di ingolfamento del flusso di coscienza. Escludiamo automaticamente una certa quantità di eventi interni ed esterni per garantirci uno spazio mentale sufficientemente sgombro per… non venire sopraffatti da tutto ciò che succede.
Questo gesto, compiuto fra il conscio e l’inconscio (non siamo completamente consapevoli della sua attuazione), influenza continuamente lo stato della nostra coscienza e, in un certo senso, le dà un ritmo, un tempo interno che fa sì che le cose non succedano tutte insieme.
E’ un processo naturale e un gesto radicato talmente in profondità che non ci accorgiamo di compierlo. Ci sfugge, cioè, il fatto che mentre viviamo un’esperienza la stiamo anche modellando: ci stiamo raccontando una storia, adottiamo una prosa e una punteggiatura che, intervenendo continuamente sulla realtà, ce la rappresenta. Ciò che ci arriva e che teniamo presente è una sorta di distillato del mondo: qualcosa che è passato attraverso una serie di filtri che hanno eliminato delle parti, ne hanno reso salienti delle altre, hanno spostato delle sensazioni accettando certi stati d’animo e reprimendone altri.
Ogni particolare momento soggettivo non è separato da tutto il resto ma diventa, nel nostro vissuto, una specie di variazione su quel tema di fondo che è per noi l’intero della nostra coscienza, con cui conviviamo continuamente durante il periodo di veglia della vita quotidiana.
La storia che raccontiamo non è separata dalla realtà ma intessuta dentro di essa; in parte è modificata dal mondo e in parte lo modifica continuamente. In altre parole: frammentiamo il mondo, raccogliamo alcuni frammenti, li mischiamo con altre cose (i nostri stati d’animo, le nostre reazioni, emozioni, opinioni e convinzioni), passiamo al momento successivo su cui applichiamo lo stesso processo e… così via.
Il modo in cui ognuno di noi compie questa azione complessa dice molto sul nostro stile, la nostra personalità, il nostro carattere. Questo è uno dei motivi per cui un bambino non vi concederà tanto facilmente delle variazioni sul tema mentre gli raccontate una storia. Vi chiederà di rimanere fedeli alla versione originale, di stare attenti alle pause, di ripetere la sequenza degli eventi così come lui la conosce.
E’ talmente impegnato a esplorare il mondo per costruire una mappa sufficientemente complessa per orientarsi che, quando ascolta una storia, non vuole conoscere cose nuove ma ri-conoscersi nelle cose che ci chiede di ripetere con cura.
Riconoscersi in una storia è rassicurante ed è naturale che un bambino sia più interessato al modo con cui vengono tenuti insieme i frammenti che all’aggiunta di parti che complicano le cose.
E gli adulti? Bé, con gli adulti il discorso cambia: quali frammenti stiamo tenendo presenti? Quali descrizioni ripetiamo inconsapevolmente e, a volte, compulsivamente? In quali storie ci riconosciamo? Siamo sicuri di non avere bisogno di ascoltarne altre?
Mentre un bambino è impegnato nella costruzione e nel consolidamento di mappe che gli rendano intellegibile il mondo, l’adulto spesso si limita ad usare quelle che ha a disposizione. Alcune di queste funzionano perfettamente: sappiamo come fare quando dobbiamo scambiarci dei convenevoli, conosciamo una serie di regole che codificano comportamenti accettabili e convenienti, ecc.
I guai iniziano quando ci ostiniamo ad usare mappe obsolete per problemi nuovi o per situazioni che richiedono strumenti più sofisticati di quelli che abbiamo immagazzinato.
Quello che definiamo mondo liquido è, in fondo, un mondo che continua a ribadirci che le vecchie soluzioni consolidate (le vecchie “affidabili” mappe) non funzionano più. Lo spaesamento, il non riconoscersi, l’aumento dell’ansia sociale e degli attacchi di panico sono, dal mio punto di vista, il risultato non solo dei cambiamenti avvenuti nella realtà ma anche e soprattutto della nostra incapacità di scegliere accuratamente i frammenti con i quali puntellare quelle parti della nostra mente che più risentono delle pressioni del mondo.
Le stesse idee di Mente e Realtà stanno cambiando e le nuove storie che dovremo raccontare, i modi con cui modelleremo il mondo scomponendolo e rimettendo insieme le parti, non possono essere le stesse che si raccontavano fino a qualche tempo fa.
O, forse, vanno semplicemente raccontate con un ritmo diverso, presentate in un nuovo formato, ripetute con voci nuove, affisse su muri diversi.
Lo psicologo D.N.Stern nel suo libro “Il momento presente” parla di un esercizio che fa fare ai suoi pazienti. Nella cosiddetta Breakfast Interview chiede alla persona intervistata di descrivere cosa ha fatto al mattino poco dopo essersi alzata e mentre faceva colazione. Credo sia un buon esercizio per tutti superare la prima barriera di rimozione, quella che ci fa dire che anche stamattina non abbiamo fatto niente di particolare e meditare un po’ sulla ricchezza del nostro flusso di coscienza e sull’abbondanza di percezioni, pensieri e frammenti mentali che si susseguono in noi, momento per momento. (Lascio il link ad un esempio di cosa trova una paziente nella propria mente quando viene intervistata accuratamente su ciò che ha pensato durante la colazione)
Quanto alle narrazioni che facciamo a noi stessi e che dovremmo farci per esercitare la mente sulle descrizioni della realtà, credo che le storie più interessanti in questo frangente storico possono essere quelle che, invece di soffermarsi solo sull’interno o sull’esterno, trattino della Soglia intesa come quello spazio che sta fra l’intimo e il mondo.
Come dice J.Winterson: “La soglia e il focolare sono spazi mitici. Entrambi hanno connotazioni sacre e cerimoniali, nella storia del nostro mito personale. Varcare la soglia significa entrare in un altro mondo – nel mondo interiore o in quello esteriore – e non possiamo mai sapere davvero cosa c’è dall’altra parte della porta fino a quando non l’apriamo.”.
Passare la soglia o stare sulla soglia sono, anche dal punto di vista terapeutico, atti cruciali. Ma questa è un’altra storia e… uno dei prossimi saggi semiseri.
Parlando di “soglia” mi è venuto in mente un commento che ho letto ieri sera, tra le note di regia dell’ultimo spettacolo di César Brie – un adattamento de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in scena al teatro dell’ Elfo (che consiglio a tutti). Diceva così: “Bachtin fa notare che Dostoevskij ambienta i momenti decisivi delle sue storie sulla soglia, in luoghi esposti, inadeguati.”
Leggendo il tuo articolo mi dico adesso che forse non sono così inadeguati, dopotutto, per far cambiare i personaggi. 🙂