Story telling: raccontare e far raccontare

“Le storie sono una forma di
compensazione. Il mondo è
ingiusto, iniquo, indicibile,
incontrollabile”
J.Winterson

Quando un giorno chiesero a quello che è stato forse il più famoso “ipnotista” di sempre, M.H.Erickson, come definisse la psicoterapia questi raccontò una piccola storia:

“Un giorno, mentre stavamo tornando da scuola, un cavallo senza cavaliere, con le briglie sul collo, superò al gran galoppo il nostro gruppo e si infilò nel cortile della fattoria…in cerca di un sorso d’acqua. Grondava sudore. Siccome il contadino non lo riconosceva, lo circondammo e lo immobilizzammo. Io gli saltai in groppa…dato che aveva le briglie, afferrai le redini gridando: “Su, andiamo”…e puntai verso la strada. Sapevo che il cavallo avrebbe preso la direzione giusta…ma non sapevo quale fosse la direzione giusta. Il cavallo trottava e galoppava. Ogni tanto si dimenticava di seguire la strada e prendeva per i campi. Allora tiravo le redini e richiamavo la sua attenzione sul fatto che era tenuto a restare sulla strada. Infine, dopo quattro miglia dal posto in cui lo avevo inforcato, entrò nel cortile di un’altra fattoria. Il contadino disse: “Ah, è così che si torna a casa! Dove l’hai trovato?”.
Dissi: “A circa quattro miglia da qui”.
“Come hai fatto a sapere che sarebbe venuto qui?”
Dissi: “Non lo sapevo…lo sapeva lui. Io non ho fatto altro che fargli mantenere l’attenzione sulla strada”.
…Penso che sia questo il modo di fare psicoterapia.”

Può sembrare una bella storiella, un modo per cavarsela con una risposta un po’ sibillina, ma chi conosce il lavoro di Erickson sa che questo autore nascondeva sotto a descrizioni molto semplici verità profonde e curative.

L’inconscio adora le immagini: al contrario della mente conscia che preferisce un linguaggio ripulito e poco ambiguo, questa parte vasta e nebulosa della nostra Psiche procede a tentoni e coglie con la coda dell’occhio (R.Laing). Se il conscio è specializzato nella focalizzazione e nell’analisi, l’inconscio è incline alla visione periferica e all’intuizione.

E siccome gran parte dei nostri comportamenti (le nostre azioni, le nostre abitudini e le nostre stesse posture) nascono e sono tenuti in vita dall’inconscio, sperare di modificare e di curare questa parte della Psiche usando esclusivamente un linguaggio razionale sarebbe come pensare che il testo di una canzone separato dalla musica o la descrizione di un quadro che non venga mostrato possano ottenere lo stesso effetto di una completa percezione dell’opera.

Quando Erickson raccontò della sua esperienza con il cavallo disperso parlava proprio di quel cavallo, di quella prateria, di quella strada verso casa e, allo stesso tempo parlava di tutt’altro: cantava all’inconscio di chi era in ascolto una canzone che parla di bambini che si sono persi e di adulti che non ritrovano la strada che porta a se stessi; parlava di attenzione e di distrazione; del rispetto per la direzione che un paziente vuole dare alla propria vita e del senso di realtà del terapeuta.

Tutte queste e … un bel po’ di altre cose.

Pensate a Pollicino e al modo in cui riesce a tornare a casa. Pensate ad Ulisse, al suo vagare e al suo voler fare ritorno, alla ricerca del Graal, ai viaggi insidiosi di ogni eroe che fa ritorno trasformato e, a volte, con un tesoro.

Questi archetipi, queste immagini ancestrali riposte nell’inconscio e piene di energia psichica, entrano in vibrazione quando una voce canta per noi una storia che tocca le corde giuste.

Casa è qualcosa di diverso per ognuno di noi; non corrisponde necessariamente al posto da cui siamo partiti ma è, sicuramente, in posto a cui sentiamo di appartenere; a volte è come se sapessimo dove è, altre volte ne abbiamo solo una vaga idea. E, tuttavia, casa è un archetipo, così come lo sono strada e prateria (luogo sconfinato ed aperto).

Senza la lettura dell’inconscio casa non sarebbe il familiare e prateria non sarebbe il perturbante (ciò che ci spaventa e da cui allo stesso tempo siamo irresistibilmente attratti). Sarebbero: “edificio in cui gli esseri umani trovano riparo” e “vasta distesa erbosa tipica della parte centrale degli Stati Uniti”.

Quando si racconta una storia si invita l’inconscio a ri-visitare e a ri-vedere la sostanza di cui è fatto, le sue immagini, collegate a specifici affetti, emozioni e sentimenti. E l’inconscio, con la sua visione periferica, coglie con la coda dell’occhio dei nessi che lo riguardano. Facendolo … esplora, ricorda (torna a toccare certe corde), si accasa.

Dice J.Winterson nel suo ultimo libro: “Nel raccontare una storia esercitiamo un controllo ma lasciamo uno squarcio, un’apertura. E’ una versione possibile, non è mai quella definitiva. E forse speriamo che i silenzi vengano ascoltati da qualcun altro, e che la storia possa continuare, possa essere raccontata. Quando scriviamo offriamo una storia e un silenzio. Le parole sono la parte del silenzio che può essere espressa.”.

Io credo che il potere curativo delle storie sia uno dei motivi fondamentali che ci spingono ad ascoltarle, a leggerle e a raccontarle.

Quando un paziente, in seduta, comincia a parlare di sé lo fa, sempre, anche romanzando. Questo va benissimo! Il terapeuta non è lì per ottenere una versione dettagliata e il più possibile coerente e veritiera: le nostre descrizioni di noi stessi e del mondo non hanno il dovere di essere assolutamente vere (non in terapia perlomeno).

In ogni racconto c’è lo sforzo di dare un senso, un valore e un’intensità a ciò che è stato vissuto. Un terapeuta che non incoraggiasse la capacità di un paziente di raccontarsi sarebbe, per fare un parallelo con l’aneddoto di Erickson, un uomo che non rispetta e non incoraggia il modo con cui l’altro trova la strada che lo porta ad essere ciò che è.

Dice ancora la Winterson: “Freud, uno dei grandi maestri della narrativa, sapeva che il passato non è compiuto, come il tempo lineare sembra suggerire. Possiamo sempre ritornare. Possiamo raccogliere ciò che abbiamo fatto cadere. Riparare quello che altri hanno rotto. Possiamo parlare con i morti.”.

Raccontare storie che ci riguardano e che abbiamo vissuto è uno dei modi con cui portiamo avanti la continua revisione della nostra vita e del nostro passato. Non è semplice affabulazione né delirio ma, invece, una sorta di terapia: una ricerca e una ricomposizione di noi stessi.

I racconti, i miti, le favole e i romanzi possono risuonare in noi e attivare parti della nostra psiche che, a loro volta, partecipando emotivamente al racconto, lo arricchiscono e lo colorano affettivamente.

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