“A oltrepassare le porte del Paradiso
non sono le persone prive di passioni
o che le hanno domate, sono quelli
che hanno coltivato la capacità
di comprenderle”
W.Blake
C’è una sorta di corollario all’ultimo post che ho scritto. Un’idea che ha a che fare con l’invidia e che penso sia bene amplificare un po’ per tenere in moto il flusso di associazioni che derivano dall’analizzare certi modo di porci e di descriverci, di narrarci.
E’ l’idea che ci si possa mettere al riparo dall’invidia (dalla propria invidia) avendo così tanto successo da suscitarne negli altri, innalzandosi al di sopra e uscendo fuori dal mucchio così che, non desiderando più niente perché tutto è stato ottenuto, si potrà vivere, da lì in poi, “felici e contenti”.
Tanti di noi sono consapevoli del fatto che questa sorta di sogno americano, questa possibilità di assicurarsi un’esistenza serena in cui poter essere sazi e non più afflitti dal desiderio e dal dolore di non poterlo realizzare, sia una sorta di illusione, qualcosa da cui, con un po’ di disincanto, ognuno di noi può rendersi immune. Conosco tante persone che hanno capito che non è continuando a rincorrere i propri sogni e realizzandoli che si può raggiungere quello stato di tranquillità a cui, istintivamente, ognuno di noi tende.
Tuttavia mi capita spesso di vedere quanto questa idea, per quanto analizzata e ridimensionata, tenda a ripresentarsi nella psiche e nel comportamento di ognuno di noi.
C’è una sorta di coazione a ripetere (cfr: La coazione a ripetere e il metodo pericoloso) che, nonostante la comprensione intellettuale di certi comportamenti nevrotici, tende a mantenerli in vita come se il loro funzionamento prescindesse dalla nostra consapevolezza della loro esistenza.
E’ come dire che “anche se so che un certo modo di fare non mi renderà felice, anche se ho capito che la felicità è solo uno scorcio che si presenta ogni tanto nel paesaggio della mia vita… anche se conosco tutto questo, vado avanti a comportarmi come se non lo sapessi”.
Questa trappola mentale abbassa subdolamente la resilienza e alimenta l’invidia.
Spesso un atteggiamento di questo tipo è dovuto più all’ambiente in cui siamo immersi che alla condizione della nostra psiche: siamo così bombardati da questo stile di pensiero e ci sono così tante persone che vi aderiscono inconsapevolmente che, come in una malattia endemica, il contagio non è mai veramente scongiurato.
Guardate questo spot:
Possiamo prenderlo come una semplice pubblicità e “giocare il giusto”. O possiamo chiederci che senso ha. Possiamo anche affiancarlo a una storiella per fare una doppia descrizione.
Un giorno la figlia dell’imperatore della Cina cadde gravemente ammalata. Siccome i medici di corte non sapevano cosa fare per guarirla, suo padre decise di chiamare a raccolta tutti i sapienti del regno perché trovassero una cura.
Tra di loro uno solo disse di avere trovato il vero rimedio al disturbo. La medicina consisteva in una serie di ingredienti molto rari che, tuttavia, potevano essere recuperati nelle farmacie dello stato. Solo uno non era disponibile e doveva essere cercato: un lembo del vestito dell’uomo più felice della Cina. Subito l’imperatore inviò i suoi messi e i suoi soldati perché mettessero a soqquadro tutto il paese e tornassero con questo ingrediente fondamentale. Passarono molti giorni e ormai si cominciava a disperare. Gli inviati tornavano con notizie tutt’altro che incoraggianti: c’era chi diceva di essersi illuso di avere scovato quest’uomo completamente sereno e senza problemi ma di avere scoperto, dopo un po’, che bluffava e che la sua felicità era solo una facciata; altri si erano messi in cammino portando l’intero vestito di quello che reputavano essere l’uomo giusto ma, sulla strada del ritorno, erano venuti a sapere di una disgrazia che gli era capitata e che lo aveva intristito. Alla fine uno degli ultimi messi tornò dicendo che, sì, lui aveva trovato quest’uomo davvero felice. Subito gli dissero di mostrare un pezzo del suo vestito. Ma la sua risposta fu: “Mi dispiace, l’uomo più felice della Cina non possiede vestiti!”.
Chissà… forse non era un italiano vero, forse non aveva giocato al Superenalotto o aveva vinto e aveva dato tutto in beneficenza.
Sembra che non fosse affatto invidioso e che nessuno lo invidiasse. Sembra che fosse anche molto resiliente anche se non viveva in una bella casa e non stava in un posto particolarmente ameno. Credo che né lo spot né l’antico aneddoto vadano presi alla lettera. Sono semplicemente narrazioni diverse e portano in direzioni diverse. Non sto sostenendo che l’antica Cina fosse meglio del mondo in cui stiamo vivendo.
Ma so che la resilienza prescinde dal mondo in cui ci capita di stare. E’ più connessa all’Eudaimonia, alla capacità di attenerci alla “spinta erotica del nostro demone”: quell’integrità che deriva più dall’accordarsi con ciò che si è profondamente che non con ciò che ci tocca vivere, con ciò che abbiamo o non abbiamo.
Come dice il personaggio interpretato da Morgan Freeman nell’ultima scena del film Seven: “Hemingway un giorno disse che il mondo è un bel posto e vale la pena di combattere per esso… sono d’accordo con la seconda parte di questa frase”.
Una versione italiana della “storiella” cinese è contenuta nelle “Fiabe italiane” di Italo Calvino e s’intitola “La camicia dell’uomo contento”. Alla lettura, ovviamente, è gradevolissima! 🙂