“Tuo fratello la mattina si mette le scarpe
e tu ti metti le gambe; non bisogna
piangersi addosso.”
La madre di O.Pistorius
Quando parlo del “fiume di integrazione” e della capacità di mantenere un equilibrio fra uno stato di caos e una condizione di rigidità (cfr Sulla depressione II parte: antidoti), parlo anche della capacità di ognuno di noi di rimanere se stesso nonostante le pressioni che, inevitabilmente, l’ambiente esercita.
Queste pressioni sono spesso definite come degli stressor: delle forze che sono in grado di attivare nell’organismo e nella psiche una risposta (lo stress) che è di per sé sana perché tende a mantenere intatto lo stato interno nonostante le difficoltà in cui ci imbattiamo durante la vita.
In termini psicologici la resilienza è la capacità di mantenere una forma anche a dispetto di tutte quelle sollecitazioni che tenderebbero a deformarci o a romperci. Rimando all’articolo “Dopo il trauma la resilienza” per una definizione abbastanza completa di questa capacità che è in parte il risultato di una buona condizione fisica e mentale iniziale e in parte il prodotto di una serie di apprendimenti che ci hanno permesso di imparare a far fronte alle pressioni esterne ed interne, trasformando le nostre esperienze in conoscenza e distillandole in quella che definisco come “la capacità di resistere passando attraverso alla sofferenza senza perdere la propria integrità”.
E’ una definizione complessa e, come tutte le definizioni, va amplificata e resa flessibile in modo che non costringa troppo il fenomeno che vuole descrivere, banalizzandolo.
Un buon modo per tenere larga una definizione è quello di affiancarla ad una storia: un racconto che riflette, nella sua narrazione, su un principio o su una serie di principi che “stanno sotto” e che affiorano nella trama che esso svolge.
Si narra che il padre del Buddha, consapevole di tutte le brutture e le sofferenze del mondo, decise di costruire un grande palazzo circondato da giardini in modo che suo figlio, crescendo, non entrasse in contatto con ciò che avrebbe potuto turbarlo o intristirlo. Il bambino crebbe così fra gli sfarzi di palazzo, ben protetto dall’esterno e circondato da ricchezze e dalla compagnia di persone che si facevano in quattro per rendere la sua esistenza felice. Ma, ad un certo punto della sua vita, il giovane sentì sempre più forte dentro di sé il desiderio di scoprire cosa ci fosse fuori dalle mura della reggia paterna e, un giorno, decise di travestirsi e di uscire di persona per vedere il mondo.
Fu così che incontrò i mendicanti, i malati, i ladri e tutto ciò che, accompagnato dal dolore, va incontro al decadimento, all’invecchiamento e alla morte. Probabilmente avrebbe potuto negare tutto questo e tornare nella sua comoda casa ma, invece, questa visione fu ciò che portò il futuro Buddha a rendersi conto di quella che più tardi definì come La prima Nobile Verità: l’universalità della sofferenza.
Fu a partire da questa consapevolezza che decise di indagare sulle origini del dolore e su un sentiero che fosse in grado di aiutare ogni essere senziente ad andare oltre. Non fu una negazione della sofferenza né una sua accettazione passiva né, tantomeno, un rifiuto maniacale del dolore.
Fu, piuttosto, un tentativo (uno dei tanti compiuti dagli esseri umani) per togliere almeno una parte di quel dolore di cui ognuno di noi è responsabile: quello per cui possiamo fare qualcosa, trasformandoci e trasformandolo.
Io credo che la resilienza abbia come terreno per la sua crescita proprio questa consapevolezza: la saggezza di sapere che non esiste un mondo perfetto in cui rifugiarci, una sorta di paradiso artificiale che ci terrà per sempre al di qua del dolore.
Il padre del Buddha tentava di fare esattamente il contrario di quello che ha fatto la madre di Pistorius con suo figlio. Il primo rappresenta una parte genitoriale presente in ognuno di noi: il genitore impaurito che vorrebbe sempre tenere in grembo il suo cucciolo evitandogli ogni dolore, rendendolo fragile e ostacolando la sua crescita.
La seconda è invece la metafora del genitore consapevole: uno che sa che la sofferenza non può essere evitata ma che ci si può equipaggiare per affrontarla e che buona parte di essa non è fuori di noi ma dentro di noi come frutto delle nostre considerazioni e delle nostre convinzioni.
Il “non bisogna piangersi addosso” è un’espressione che va al nocciolo del problema. Mi piango addosso ogni volta che, dimenticandomi della prima nobile verità, mi vedo diverso e “più sfigato” di qualcun altro o di un ideale che ho messo (o che mi è stato messo) arbitrariamente lì.
Se la sofferenza è universale l’invidia non ha nessun senso.
In psicoanalisi si definisce l’invidia come l’odio per l’oggetto precedentemente erotizzato. Solo se erotizzo un oggetto rendendolo così desiderabile da non poterne fare a meno, comincerò a soffrire terribilmente per la sua mancanza, o per la sua presenza lontano da me, nelle mani degli altri. In questo modo la mia mente darà inizio a una serie di recriminazioni e rimuginazioni su: “Come mai gli altri sì e io no?”, “Come posso essere felice se non ho…?”, “Come faccio a riprendere lo stato di pace in cui ero prima che succedesse tutto questo?” ecc.
La resilienza è il contrario di queste rimuginazioni e rappresenta la capacità di muovermi verso ciò che desidero senza soffrire per il fatto che ancora non ce l’ho o per il fatto che l’ho perso o che non l’ho mai avuto.
E’ una sorta di movimento consapevole che mi permette di continuare disciplinatamente senza perdermi in quei frutti dell’invidia e del desiderio compulsivo (attaccamento, avidità, risentimento) che non fanno altro che rendere il mio cammino più faticoso e il mio procedere più deprimente.
Quando, in terapia, mi capita di vedere un depresso che comincia a diventare un po’ più resiliente; quando riesce a sfuggire da quella sorta di trappola mentale che rende la sua vita soggettivamente più difficile di quella degli altri, la prima cosa di cui mi accorgo è una sorta di cambiamento fisico: come se il suo incedere fosse meno pesante, come se smettesse di portare un peso di cui prima si era fatto, suo malgrado, carico.
Eppure, in genere, nel suo ambiente non è cambiato niente. Come il mio, è ancora pieno di inciampi e di difficoltà, di sentieri tortuosi con qualche scorcio confortante che prima, lui, non riusciva a vedere. Ciò di cui si è liberato non è qualcosa di esterno ma qualcosa di intimo: un macigno interiore pieno di lamenti e di tentativi di evitare una sofferenza che, invece, va riconosciuta, accettata, investigata e lasciata finalmente andare (cfr R.A.I.N.: come ce la raccontiamo).
La sua capacità di non-identificarsi con la propria sofferenza è un modo diverso di raccontarsi che, rispetto a prima, poggia sulla consapevolezza di non essere il solo che la sta vivendo. E’ questo che taglia le gambe all’invidia e che apre le porte alla resilienza e alla capacità di riprendersi.
Alla fine del suo libro “Narciso e Boccadoro”, Hermann Hesse fa dire ad uno dei due personaggi principali: “ Non c’è una pace che alberghi durevolmente in noi e non ci abbandoni. C’è solo una pace che si conquista continuamente con lotte senza tregua, e tale conquista deve essere rinnovata giorno per giorno. Tu non mi vedi lottare, non conosci le mie battaglie… Ed è bene che tu non le conosca. Tu vedi solo che io sono soggetto meno di te agli umori variabili e credi che ciò sia pace. Ma è lotta, è lotta e sacrificio. Come ogni vera vita, come anche la tua.”
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