“La terra non l’ereditiamo dai nostri padri,
ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli”
Alce Nero, Capo Sioux
Il bell’articolo di Barbara Spinelli pubblicato su La Repubblica dell’11 gennaio mi dà lo spunto per un altro breve post sulla depressione.
Il presente non è vuoto; è pieno, abbondante, debordante. Uno dei motivi per cui non ce ne accorgiamo è perché, insieme al fiume di messaggi che arriva dai mezzi di comunicazione, molti, troppi, ci minacciano con lo spauracchio della scarsità e della miseria.
E’ strano che in un mondo in cui abbiamo davvero tutto e in cui il superfluo ci invade da ogniddove, siamo sempre più preoccupati da ciò che ci verrà a mancare.
Ma forse, come diceva Marx, non abbiamo altro da perdere che le nostre catene.
E la domanda diventa: di cosa sono fatte oggi queste catene? L’articolo della Spinelli ne parla in termini storico-economici e mi trova completamente d’accordo. Ma a me tocca invece, visto il mio lavoro, una riflessione psicologica su questo argomento.
Cosa continua a svuotare il mio presente e a mantenermi continuamente “consumante”? Cosa, parafrasando la Spinelli, mi porta a spendere oggi e a consumare subito invece di mettere nel futuro e “restituire ai miei figli e ai miei nipoti”?
C’è una mentalità del fare che è psichica ma che è anche frutto dell’età della tecnica ed è un modo di vedere le cose che è, letteralmente, in grado di svuotare il presente. E’ l’idea che, appena si presenta un problema, appena intuisco un ostacolo alla mia (nostra) corsa sfrenata verso il futuro, devo agire per eliminarlo, toglierlo di mezzo, ristabilire quella pace che mi dà l’idea di non avere “un buco”, placare subito la mia fame, a volte prima ancora che mi venga, quando è ancora solo una minaccia, prevedendola e anticipandola.
Questo mi rende frenetico, iperattivo (anche se non sto veramente agendo) e sempre occupato in un problem solving che impegna gran parte delle mie energie. E’ come se si dovesse, sempre, inventare soluzioni per correggere il presente! Ma questo continuo e spesso inconsapevole sforzo non fa che svuotarlo. Se il Giardino di Psiche (cfr Sulla depressione) comincia ad essere arido e vuoto devo riempirlo.
Ma facendolo perdo completamente di vista il presente e comincio, inevitabilmente, a depredare il futuro perché non sono più in grado di fermarmi e di progettare, smetto di proiettare in avanti se non per pre-occuparmi e, intravedendo “in là” solo problemi.
Questo stato mentale è deprimente e, allo stesso tempo, ansiogeno: mi fa sentire povero e mi costringe a cercare “qui e ora” qualcosa che riempia il vuoto. Ma il presente non è questa cosa che ci siamo abituati a percepire! O meglio, è anche questo, ma questo, questa modalità di proiezione, non è che uno dei modi con cui possiamo leggere la Realtà.
C’è un altro modo, tuttavia, che riguarda più l’essere che il fare: è un sostare nel tempo presente accogliendo ciò che “qui e ora” ci è dato; a partire dal corpo e dai suoi sensi (e dal luogo in cui siamo) che, spesso, passa inosservato perché è filtrato dalle preoccupazioni e da quella corsa verso un futuro che pretendiamo pieno ma che ci sembra sempre più vuoto.
Non ci accorgiamo che l’ansia, che come una nebbia nasconde ciò che ci circonda, è il frutto di un modo di guardare sbagliato. Dobbiamo imparare a toglierci di mezzo: abolire per un po’ quel consumatore ansioso che siamo diventati e fermarci per toglierci dalle spalle il peso del vuoto che il nostro stesso atteggiamento crea in continuazione.
E’ una modalità che un mio amico, parlando di letteratura e di “cultura”, ha definito il non-leggere (tutto attaccato o, volendo, con il trattino) e quello che una nostra amica, con una frase felice, ha descritto come: “…narrare storie che non muoiano, storie con cui ci conquistiamo il domani ogni volta in cui ci entriamo dentro e da cui giocoforza non vogliamo mai uscire…” (Mafe, Lettura: la fine delle fini).
E’ un modo di leggere e narrare il mondo che ci lascia protesi ed estatici, dimentichi di quella vuotezza dolorosa che il piccolo io consumatore-raccoglitore “mette lì” senza nemmeno accorgersene.
Le storie che questa modalità produce esulano dalla dicotomia abbondanza-scarsità, proponendo un esercizio del tutto diverso: uno svuotamento selettivo della mente, una capacità di eliminare quei punti di vista che, con la pretesa del tutto e subito, esigono un appagamento istantaneo di desideri che non sono più nemmeno i nostri desideri.
Provatelo! Fate uno dei miei esercizi preferiti. Scegliete un posto, va bene la natura ma ci si può accontentare di un parco o di una piazza e, invece di ascoltare quella brama che vi spinge a fare qualcosa, seguite il consiglio di quel maestro Zen che in una breve poesia scrisse:
“Gli uccelli sono svaniti nel cielo
e ora l’ultima nube corre via.
Sediamo insieme, la montagna e io,
finché resta solo la montagna”
Li Po
L’avete fatto già, qualche volta, da bambini e mentre lo facevate non pensavate al futuro. Le nubi della preoccupazione svanivano e, alla fine, dopo esservi tolti di mezzo per un po’, avevate spazio per guardare avanti con quella capacità di progettare e di restituire al mondo che i bambini hanno.
E’ un buon antidoto, svuota il presente, ma per renderlo leggero e riempie il futuro. Non pretende di sconfiggere la crisi o di “far crescere la nazione” ma aiuta a decostruire quei pensieri che, a mio avviso, la crisi la creano impedendo ogni crescita.
Sì, è proprio quel togliersi di mezzo che porta gradualmente a guardarsi con maggiore obiettività e a trovare il filo che può dipanare le matasse delle angosce in cui riusciamo magistralmente ad invilupparci, nel vano tentativo di aggiustare una realtà che ci pare “sbagliata”.