“Per quanto lontano tu possa andare
non raggiungerai i confini dell’anima”
Eraclito
“Perciò non ci sarà una definizione che limita e taglia,
ma piuttosto un’amplificazione che estende e connette”
J.Hillman
Sono convinto che ciò che rende curativa la domanda psicologica “Dove sono?” sia il fatto che, nel momento in cui comincio a fantasticare in termini spaziali, ho l’occasione di “guardare nella mente” e di interrogarmi sul mio mondo interiore come se questo fosse un luogo. In questa cronaca darò un’idea di perché credo sia utile farlo.
Quando chiedo ad una paziente che ha avuto un attacco di panico: “Tu dove eri in quel momento?” non mi accontento della prima risposta che in genere è qualcosa del tipo: “In automobile”, “In tangenziale”, “In automobile e in tangenziale”. Questa è una risposta ovvia e risponde alla domanda “Dove era il tuo corpo?”. Ora, è abbastanza ovvio che il paziente si trovi dove è il suo corpo: la mente infatti è innanzitutto un processo incarnato; tuttavia ognuno di noi sa che, molto spesso, la mente sta vagando in luoghi interiori che sono, in effetti, molto distanti dal luogo in cui ci troviamo, fisicamente, in questo momento.
Cerco quindi una seconda risposta e, quasi sempre, la seconda risposta è molto più articolata della prima e descrive un pezzo della vita della paziente: “Bè, in questi giorni sono molto impegnata: ero in macchina sulla tangenziale perché stavo andando da un cliente, ma ero in ritardo e sapevo che poi sarei dovuta tornare in ufficio e avrei fatto ancora più tardi e avrei dovuto mandare mia madre a prendere il bambino all’asilo…..anche oggi accidenti….che è tutta la settimana che non ci vado io….e mi sa che quel bambino soffre a vedermi così poco…..e proprio in quel momento mi sono ricordata che dovevo telefonare per disdire l’appuntamento dal ginecologo che…..domani non ce la faccio…..ecc.”.
In estrema sintesi la seconda risposta alla domanda “Dove eri in quel momento?” è: “In più posti contemporaneamente e non molto in contatto con il mio corpo”.
Ci sono volte in cui lascio che i miei pazienti vadano avanti a descrivere anche per mezz’ora il paesaggio mentale nel quale erano immersi quando è successo un determinato evento e, molto spesso, quando, magari verso la fine della seduta, dico loro che, in quella successiva, cercheremo di capire bene “Dove stava essendo in quel momento”, mi guardano come se non capissero dove voglio andare a parare. Eppure, dopo alcune sedute, quasi tutti sono in grado di descrivermi con accuratezza uno stato d’animo e di capire quanto quella narrazione sia, tutto sommato, nient’altro che la descrizione di un particolare paesaggio mentale, con i suoi vuoti e i suoi pieni, con uno sfondo, dei personaggi, una coloritura emotiva e un complesso flusso di pensieri che lo percorre.
E non appena le descrizioni diventano un po’ più complesse sia io che il mio paziente cominciamo a renderci conto di come il labirinto si manifesta e, allo stesso tempo, si occulta.
Infatti se è vero che nella descrizione siamo in grado di aggiungere sempre più particolari e di renderci conto di come, condensati in un singolo episodio, siano presenti così tanti aspetti della vita e della psiche del paziente; è altrettanto vero che questi, nel momento in cui lo stava vivendo, proprio per il fatto che osservava il tutto dall’interno, non aveva “a disposizione” tutti gli elementi che ora, in seduta, può osservare.
Questo è particolarmente vero nel caso di un attacco di panico che è un momento in cui gran parte dell’attenzione di una persona viene come risucchiata dentro al corpo e ai suoi sintomi. Una mia paziente descrivendolo disse di sé in quel momento: “Ero come un puntino perso dentro ad un tunnel di paura e di dolore; non so come, mi sono fermata e sono scesa dall’auto, credo di essere caduta e ho sentito delle persone che parlavano…..solo dopo un po’ ho capito che erano mio marito e mio figlio che, spaventati, stavano chiamando un’ambulanza. Avevo guidato fino a casa percorrendo quella specie di tunnel doloroso…..ma non so come ho fatto”.
Questa e molte altre narrazioni dimostrano il lato oscuro e sempre sfuggente del labirinto: è come se, in certi momenti, intere porzioni del nostro mondo interiore sparissero per lasciare lo spazio a pochi contenuti estremamente vividi che coprono tutto il resto.
Sono attimi in cui siamo così impegnati a vivere che non c’è spazio per la riflessione: il paesaggio si stringe, la mente si sofferma solo su alcuni particolari, a volte addirittura dentro alcuni particolari. E perdere di vista tutto il resto, può essere piacevole mentre stiamo baciando la persona che amiamo; terrificante durante il panico; immobilizzante fino al congelamento quando in un delirio di gelosia non riusciamo a togliere l’attenzione da una frase che ci ha ferito o da un gesto che ci ha messo in allarme.
Quando riflettiamo su dove siamo stati poco prima di immergerci o di precipitare in quel momento, quando con calma osserviamo il percorso che ci ha portato fin lì e il viaggio che ci eravamo prefigurati prima di incappare in quel frangente, è come se altre parti del labirinto prendessero forma. Ecco perché nel momento della riflessione, in seduta, invito il mio paziente non tanto a definire cosa gli è successo ma, piuttosto, a chiedersi cosa stava essendo in quel momento, in quale parte del proprio paesaggio mentale si trovava quando l’episodio, bello o brutto, che mi sta raccontando, ha avuto luogo.
Un attacco di panico, una crisi di gelosia e persino un bacio sono eventi ben definiti. A volte sono così definiti che restiamo come imprigionati nella loro stessa definizione: nel recinto delle sensazioni e degli stati d’animo che abbiamo provato mentre stavamo vivendoli.
Un paziente che diventa “un impanicato”, un geloso, un innamorato (chi pensa che l’innamoramento non sia a volte una vera e propria “malattia” dovrebbe ascoltare per alcune ore le sofferenze di un amante non corrisposto) è come un viaggiatore che si è fermato in un punto del labirinto, spesso molto scomodo e angusto e non riesce ad uscirne.
Ci sono esperienze che ha vissuto, ferite che ha subito, battaglie che ha combattuto, lutti, abbandoni, conquiste, sconfitte e mille altre cose che hanno contribuito a renderlo ciò che è e, in qualche modo, a definirlo.
Ma, fortunatamente, il labirinto sfugge a qualsiasi definizione e si svela, invece, di fronte ad una riflessione che amplifica e espande.
Alcune mie pazienti che soffrivano di attacchi di panico hanno trovato giovamento dall’assunzione di farmaci appropriati; ma so che ognuna di loro è pronta a sottoscrivere che, a partire da quei momenti terrificanti, ha iniziato , ricalcitrando all’inizio, un viaggio che l’ha portata a conoscere aspetti di sé che dovevano venire a galla, paesaggi che volevano manifestarsi.
La psiche non ha confini raggiungibili, il labirinto non si lascia de-finire ma chiede di essere esplorato.